17 giugno 2019

La zuccata

Aveva davvero uno sguardo malandrino oggi Luca. Da quando si era seduto, continuava a guardarmi con un strano sorrisetto un po’ inquietante… cogitava qualcosa nella sua testolina matta, anche se non capivo cosa: si limitava a seccarmi con inutili domande, più intento a farmi perder tempo, o meglio ad assicurarsi che non avessi tempo: per lui, per noi, per quello che prima o poi – sapevamo – saremmo finiti a fare. Ma perché tutte quelle domande? Stavo letteralmente impazzendo: odio non sapere che cosa non sta per succedermi attorno, odio essere in balia della gente!
– Quanto ancora? – insisteva.
– Luca non lo so…, smettila di rompermi! Credo anche tutta la giornata! – visto che ci teneva tanto  a che  “non avessi tempo”, tanto valeva farglielo credere veramente, anche se stavo per finire.
Ora si era messo a ristudiare; proprio non capivo: prima inquieto, poi risoluto, ora, invece, sembrava sedato, come una fiammella a corto d’ossigeno; non mi chiedeva più niente, stava silenzioso chino sui quaderni, col respiro pacato, mentre il biondo dei suoi capelli sembrava donar luce a tutta stanza. Mi ipnotizzava la forma morbida del suo coppino: quella rotondità gentile che m’invogliava ad accarezzarlo, e certamente lui avrebbe gradito, magari corrispondendomi con un sorriso. Pian piano intravidi, col mio sbirciare in segreto, un accenno di sorriso, mentre riprese a sgomitare: gomito a gomito, lui spingeva, io respingevo, mi guardò, mi voltai, e prendemmo a gareggiare entrambi spingendoci con le mani, come due lottatori seduti. Ma allora che aspettava… era tutta lì la sua smania? Possibile che quel pomeriggio volesse solo giocare? Per la nostra concitazione, finalmente una penna si mosse;: con secco rotolìo, rotolò verso l’esterno del tavolo, scandendo un silenzioso conto alla rovescia, mentre noi due immobili attendevamo l’imminente caduta. Era sua, feci per raccoglierla, ma frettolosamente mi anticipò, sgusciando sotto il tavolo.
Era difficile comprendere Luca, pur intuendo cosa tramasse, il suo comportamento imprevedibile me lo rendeva semplicemente enigmatico. Lo sentii sbattere più volte contro la mia gamba: ma dov’era finita quella biro? Quanto ci voleva per raccoglierla? Finché a tradimento m’accorsi di non riuscir più a chiudere le gambe. Neanche il tempo di scoprire la natura dell’ingombro che mi sentii sfilare l’uccello delle mutande: – Ma Luca, che fai? – gli chiesi facendomi indietro: stava inginocchiato tra le mie gambe, all’ombra del tavolo, tenendo saldamente la mia verga.
– Ti faccio una sega! – esclamò convincente, lì per lì non capii se fosse una proposta oppure un’imposizione, ma compresi che un no non era contemplato.
– Adesso…! Mentre sto studiando!
– Sì, perché no? – mi disse esortandomi al sì – Dovrebbe essere più divertente, no? – in effetti non aveva tutti i torti, era una fantasia intrigante, e poi non sarebbe stato la prima volta che mi stuzzicavo l’uccello mentre studiavo: magari soprappensiero, la mano finiva sempre lì.
– Sì! però non altro… –; annuì. Non credo fosse tanto intenzionato a masturbarmi, quanto più a creare un precedente: per avere una prossima volta una carta da spendere a ruoli invertiti.
Presto dovetti ricredermi: studiare stuzzicandosi l’uccello era cosa ben diversa che avere uno che ti masturba divinamente. Anche se all’inizio credevo di potermi concentrare, dopo qualche riga mille immagini mi si paravano davanti, impedendomi di continuare. La sega mi prendeva completamente; e pure lui, secondo me, se la stava godendo: già me lo vedevo soddisfatto che per l’eccitazione ci dava là sotto di mancina. Andai col piede a indagare le sue sotterranee attività, tastando il suo morbido fagottino all’incrocio degli inguini. Che bella sensazione sentire quella cedevole resistenza: era come pigiare su di un acceleratore: più premevo, più la sua foga aumentava.
Chi aveva più voglia di studiare con quella sega fantastica? A fanculo i libri! Poi sentii la mano di Luca farsi più pesante e liberarmi la cappella… bravo bambino! Percepii tutto improvvisamente più bello, più umido, più avvolgente. Non potevo toccarlo, così posai i palmi aperti sul tavolo; lo sentivo: le sue labbra si muovevano avanti e indietro con foga e decisione; premevo sul tavolo, quando un colpo secco provenne da sotto il tavolo: toc!
– Luca! – esclamai, abbassandomi preoccupato.
Sferrò con stizza un pugno alla gamba centrale del tavolo, poi tornò a trattenersi dolorosamente la testa, e con gli occhietti stretti quasi piangenti. Doveva essersi fatto veramente male se quello era spigolo dove aveva sbattuto, spigolo che anch’io conoscevo bene da piccolo per lo stesso motivo.
– Dai, Luca, vieni fuori… fammi vedere! – gli allungai le mani per traghettarlo fuori, accogliendolo tra le mie braccia, come un cucciolotto ferito. Che bello, però, sentirlo così bisognoso di me. Tranquillizzandolo, con delicatezza ruppi la resistenza dell’intreccio delle sue dita sopra la testa, mentre con apprensione accarezzavo la sua criniera in cerca di qualche goccia scarlatta. Indugiai un po’ per poter accarezzare ancora la sua chioma morbida, di lui che in fondo sembrava gradire le mie amorevoli attenzioni. Tentai di scorgere meglio: forse si trattava di un taglietto sottile, di quelli che si vedono come ritardo, ma non appariva niente neanche col trascorrere del tempo, peccato… già mi figuravo mentre lo medicavo.  C’era però poca luce nella stanza, così lo portai in cucina, pensando a come, nel frattempo, quell’episodio poteva sembrar provvidenziale per fargli capire di non far troppo il capetto emancipato.
– Ahi!
– Ma se non t’ho nemmeno toccato! Su, non facciamo d’un bernoccolo una tragedia!
– Sarà anche solo un bernoccolo, ma a me fa male! – oh povero, com’era delicato.
– Spetta che ti do del ghiaccio.
Cuki, del ghiaccio, e uno straccio per avvolgere il tutto, come prescrivono i manuali del primo soccorso, ed ecco il rimedio per il suo “atroce” dolore, di lui che ancora si teneva la testa con le mani come se gli stesse per saltar via. Mentre completavo l’impacco, Niki irruppe in cucina catalizzando la sua attenzione, e anche il dolore, visto che sembrava sparito.
– Ma allora ti fa male o no?
– Certo, che mi fa male! – disse con ostentazione.
– Bene! Allora lasciami stare il gatto e mettici sopra questo…
– Ma che è? Non c’ho  mica una testona da elefante! – disse guardando l’impacco, che per l’inesperienza avevo sovradimensionato: almeno il senso dell’umorismo non gli era passato. – Comunque sei sicuro che non mi sono tagliato… – sembrava quasi ci tenesse ad essersi fatto male: chissà, forse voleva una scusa per non andare a scuola domani…
– Fammi rivedere… – era piacevole tenere la sua cavezza tra le mani, così morbida che quasi me la sarei stratta al petto come quando stringevo il gatto.
– No, non hai niente… non ti preoccupare: non ti dovranno dare dei punti…
– Eh già! fa’ il dottorone adesso: “ non ti dovranno dare dei punti”! – polemizzò, con un tono così antipatico da sembrare proprio volere attaccar brighe: o la botta in testa doveva essere stata più forte del previsto, o forse voleva solo litigare per scaricare su di me la sua frustrazione, per la goffaggine appena mostrata. Ma non gli avrei dato questa soddisfazione, conoscevo le tecniche di scaricabarile: ero nato prima di lui in fondo, e non mi sarei fatto trascinare sul fondo da un pivellino.
– No, non faccio il dottorone… è che ho esperienza in queste cose: una volta mi han dato tredici punti! – scoprii il polpaccio, per mostrargli la cicatrice biancastra fatta tre anni prima col Ciao truccato di un amico. Dovetti poi raccontargli per filo e per segno tutta la faccenda, compreso come avevo contrabbandato quell’incidente per una rovinosa caduta in bicicletta, altrimenti ora col cavolo che avrei avuto il motorino. L’atroce dolore sembrava passato: – Si vede che il ghiaccio t’ha desensibilizzato ‘sta capoccia vuoto… – e mentre lui mi guardò bonariamente storto, gli misi una mano sulla spalla - …dai, malatino, andiamo!
Non appena gli diedi le spalle: – Dottore! Dottore! –, mi senti trattenere per il polso: – …non mi sento tanto bene: mi sento duro qui, e faccio fatica a piegarmi! – portò la mano sul suo pacco.
“Cinno maledetto” dissi tra me e me per quella trovata. Poi, sentendo quel turgore palpitante, entrai nella parte: – Mmh… in effetti qualcosa c’è, mi faccia vedere… – lo spinsi con decisione contro lo spigolo del tavolo: – Quanti anni ha, giovanotto? – con goduria gli abbassai la cerniera.
– Quattordici… –, slacciai la cintura.
– Uh, è giovane! e sente, per caso, anche male alla testa?
– Sì, come ha fatto a indovinare… Proprio come se avessi appena dato una capocciata!
– E già… immaginavo! – finalmente glielo sfilai dalle mutande: – Eh, ma che roba…! – dissi con una voce da Pozzetto davanti a quell’enorme cazzone all’insù.
– Allora… va tutto bene, vero? – continuò, ridendo.
– No no… anzi, è gravissimo! Lo vede sto coso qua? – afferrai quella verga durissima – Non dovrebbe proprio esserci! Qui dovrebbe esserci tutto piatto!
– Oh mio dio! E che si può fare…– mi disse con una voce furbetta: – si può curare?
- Sì sì, benissimo! e conviene farlo al più presto!  – aprii il cassetto del tavolo – Anzi lo facciamo subito… una bella amputazione e non se ne parla più! – dissi, estraendo un lungo coltellaccio.
– Sto CAZZO! – disse, portandosi le mani al genitale.
– Come hai… ehm, ha detto? – continuai la recita.
– Come amputare!? – Sembrava un calciatore sulla barriera difensiva.
– E sì, in questi casi è la soluzione migliore… un bel taglio netto… – feci segno col coltello – …e non se ne parla più!
– Ma è proprio necessario? In fondo non mi dà così fastidio…, e magari guarisce da solo!
– No, no! Non guarisce mica… – gli infilai la mano nelle mutande per rendergli visibili i testicoli: – li vede questi due cosi qua… – indicandoli alternativamente con la punta del coltello – non dovrebbero proprio esserci: si sta propagando, dobbiamo amputare tutto e subito. – Mi rapì nel frattempo il riflesso del suo pene nella  lama del coltello, mentre cercavo d’angolarlo per farcelo entrare tutto, senza però trovare la giusta inclinazione: – … questo bisturi però è troppo: per un affarino del genere basta anche meno…
– Affarino ci sarai tu! – disse indispettito, mentre rifrugavo nel cassetto.
– Come ha detto? non ho capito…
– Niente… niente! Ehm… mi chiedevo, piuttosto, se non c’era un metodo alternativo… –, ammiccò con l’occhiolino.
– Sì, ci sarebbero, però in fondo sono inutili appendici: meglio levarle…
– Però, io ci sarei affezionato a queste mie… “appendici”…
– Ma è tutta roba moderna, roba new age… cose inaffidabili…, io sono per la tradizione! Meglio un bel taglio e via…
– Ma insisto: io sono moderno. E mi piace pure questa roba… new age.
– Uffa, ma il medico pietoso fa la piaga purulenta!
– Eh...? – rimase con la bocca aperta e lo guardo stralunato: probabilmente non aveva mai sentito il proverbio. Posai il coltello e lo presi per l’uccello: – Dai vieni…
Com’era bello trascinarlo per quel testimone improprio di staffetta; una staffetta che prima aveva visto lui in gioco e tra non molto me. Lo portai in salotto, gli abbassai i pantaloni quel quanto bastava e poi lo spinsi a sedere sul divano nella sua più completa passività. Vacca com’era bello con quell’uccello svettante! mi sedetti alla sua sinistra e iniziai a segarlo. Dovevo riprendermi quello che la volta scorsa mi aveva sottratto con la sua fuga improvvisa. Mi sentivo bene a masturbarlo, quasi lo facessi a me stesso; sentire qualcosa di duro e lungo in mano, ma di un altro, aveva un epilogo travolgente sulla mia mente: lo sentivo mio, sentivo quasi un senso di possesso del suo corpo, del suo coso, di lui stesso, perfino del suo pensiero.
Ero indeciso se guardare con soddisfazione il suo pene oppure la sua faccia goduriosa, in quel momento ci sarebbe servito un pittore cinquecentesco per immortalarne l’estasi gioiosa. Un desiderio pulsante mi crebbe di tenerlo ancora volta in bocca: – Vede che questa cura non funziona… – a quel punto Luca mi guardò come se lo stessi prendendo in giro – Ci vuole la cura intensiva!… – e mi abbassai verso il suo splendido uccello.
Era appena il terzo pompino che gli facevo ritrovatolo dalle vacanze, eppure sentivo con quella parte di lui una sintonia incredibile, una famigliarità atavica, che oltrepassava i limiti del tempo. Succhiavo quel pene tornito e Luca gemeva; sentivo questa volta un qualcosa in più: il piacere vivido d’introdurre il suo lungo arnese nella mia bocca, che diversamente dalle altre non era solo un semplice bisogno di sfogarmi. Quel senso di pienezza, quella fragranza, in quell’istante ispiravano un vago senso di poesia, ma avevo il bisogno di qualcosa in più di lui. Luca mi poggiò la mano sulla testa e già sentivo le prime sue stille di sperma; ecco finalmente quello che volevo… succhiai, e più succhiavo più ne usciva: liquido, aromatico abbondante, ma non ne ricordavo tutta quella gran copia l’ultima volta!, mi sentivo colmato, dovetti deglutirne un po’ per farne spazio all’altro che arrivava.
Csh csh! can Luca, ma quant’è che non vieni… csh csh! – mi venne una tossetta dal vago sapore del suo sperma.
– Perché…? – rispose con un sorrisetto compiaciuto.
– Eh! ...prova ad arrivarci… – mentre il mio singulto non si fermava.
– Non so… qualche giorno, comunque…
Qualche giorno…! Ma come faceva a resistere quel mocciosetto? che io da che l’avevo rincontrato non riuscivo più a stare un giorno senza farmene una, e per l’eccitamento capitava pure che, quando se ne andava, riprendevo ad ammazzarmi di seghe! Ora m’aspettavo, perlomeno, che si facesse avanti per il suo turno visto che prima non aveva concluso, ma dopo essersi tirato sù la cerniera, lo vidi muore un passo nella direzione opposta.
– Scusa dove pensi di andare? – Dopo averlo fermato per un polso, s’arrestò sorridendo: – Non vedi che anch’io sono bisognoso di cure?! – gli indicai l’enorme bozzo sotto la mia tuta.
Tornato su’ suoi passi, salì in ginocchio sul divano dov’era prima seduto, ergendosi più alto di me, mi guardò dall’alto in basso con un sorriso malizioso e poi si accovacciò scoprendomelo dai vestiti. Toccò un attimo in punta di dita il segno umidiccio del mio eccitamento su quell’accenno di glande scoperto dal mio turgore; mi ricordò l’umido tocco della sua lingua, era così delicato quasi temesse di farmi del male, poi cominciò la sega sorridendomi nuovamente come a chiedermi se ero felice.
– Passa direttamente alla cura intensiva… – l’esortai, e Luca prontamente abbassò la pelle e girò attorno la lingua. L’adoravo quando prendeva l’ iniziativa; poi cominciò la vera pompa. Non sapevo dove posare le mani: sulla sua testa avevo paura di fargli male, ma volevo toccarlo; così, piano, accarezzandolo, gli sfilai la maglietta mal posta sotto i jeans, scoprendogli l’inizio della schiena; trovavo eccitante il suo fianco snello, così presi ad accarezzarlo con mossette fugaci e a incitarlo con qualche sì. Alle mie incitazioni cominciò a succhiarlo più forte, e io non potevo far altro che gingillarmi con la sua colonna vertebrale, sconfinandogli ogni tanto sotto l’elastico delle mutande. “Dai, Luca…”; “su Luca…” dicevo nel mio maldestro tentativo d’imitarlo nei suoi versi di godimento, mentre lui sentendomi giungere adeguava il succhiamento: – Luca, preparati! – non riuscivo a esimermi dall’avvisarlo: – sto venendo… – e succhiò con avarizia ogni mia goccia di sperma. Tornò su, passandosi il dorso della mano sulla bocca come se avesse fatto una grandiosa scorpacciata, e sorridermi accattivante sembrò quasi chiedermi se anch’io ora ero soddisfatto.
Stavo ancora con l’uccello di fuori, quando tentò nuovamente la fuggita; ma dove voleva scappare quel bel biondino? Lo bloccai per un braccio, mentre lui mi guardò incuriosito: – Ma dove vuoi scappare…? – e me lo tirai vicino, cercando caricarmelo addosso. Nella mia mente mi ero figurato un lento adagiamento, ma sottovalutando le forze in campo, crollammo rovinosamente sul divano. Luca era a pochi centimetri dal mio naso, le nostre labbra per poco non si sfiorarono: divenni rosso per l’imbarazzo. – Ma ti piaccio così tanto? – mi disse con un tono divertito, ma serio nell’essenzialità della sua domanda.
Cosa aveva  voluto dire? …un campanello d’allarme scosse la mia anima: mai un “ma” iniziale mi sembrò così cupo; e poi cosa voleva intendere con “piacere”? Come amico? Come persona? Fisicamente? Esteriormente? Io lo trovavo semplicemente… sentivo per lui un…, ma che rispondergli… la verità… Quale verità? E lui: perché me lo aveva chiesto a quel modo? Una domanda così formulate presupponeva che, qualsiasi cosa fosse, il mio provare fosse scontatamente più profondo del suo! Che provava lui? Magari il suo sentire era più superficiale del mio…, un ghiribizzo, uno sfogo sessuale in attesa della ragazza.
– Cosa!... volevo solo giocare! – gli dissi, scapigliandogli i capelli per sdrammatizzare.
– Ahia! – si lamentò piuttosto seccato: – Ma sei scemo?!
– E te l’avevo detto di tagliare, ma tu non m’hai voluto ascoltare! – gli abbassai la testa per poterla guardare: – Forse è meglio che chiami i tuoi, se ti fa così male...
– No! No! Riesco ad andare a casa… – contento lui… io me lo sarei tenuto un altro po’ con la fronte poggiata sul mio petto a carezzarmelo, ma visto che avevo appena evitato un discorso potenzialmente imbarazzante, meglio troncarne ogni altro sul nascere: – Dai che abbiamo già perso anche fin troppo tempo, su!
– Già… – si alzò, tenendosi ancora una mano sulla parte dolorante della nuca.

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