Aveva
davvero uno sguardo malandrino oggi Luca. Da quando si era seduto, continuava a
guardarmi con un strano sorrisetto un po’ inquietante… cogitava qualcosa nella
sua testolina matta, anche se non capivo cosa: si limitava a seccarmi con
inutili domande, più intento a farmi perder tempo, o meglio ad assicurarsi che non
avessi tempo: per lui, per noi, per quello che prima o poi – sapevamo – saremmo
finiti a fare. Ma perché tutte quelle domande? Stavo letteralmente impazzendo:
odio non sapere che cosa non sta per succedermi attorno, odio essere in balia
della gente!
–
Quanto ancora? – insisteva.
–
Luca non lo so…, smettila di rompermi! Credo anche tutta la giornata! – visto
che ci teneva tanto a che “non avessi tempo”, tanto valeva farglielo credere
veramente, anche se stavo per finire.
Ora
si era messo a ristudiare; proprio non capivo: prima inquieto, poi risoluto,
ora, invece, sembrava sedato, come una fiammella a corto d’ossigeno; non mi
chiedeva più niente, stava silenzioso chino sui quaderni, col respiro pacato,
mentre il biondo dei suoi capelli sembrava donar luce a tutta stanza. Mi
ipnotizzava la forma morbida del suo coppino: quella rotondità gentile che m’invogliava
ad accarezzarlo, e certamente lui avrebbe gradito, magari corrispondendomi con
un sorriso. Pian piano intravidi, col mio sbirciare in segreto, un accenno di
sorriso, mentre riprese a sgomitare: gomito a gomito, lui spingeva, io
respingevo, mi guardò, mi voltai, e prendemmo a gareggiare entrambi spingendoci
con le mani, come due lottatori seduti. Ma allora che aspettava… era tutta lì
la sua smania? Possibile che quel pomeriggio volesse solo giocare? Per la
nostra concitazione,
finalmente una penna si mosse;: con secco rotolìo, rotolò verso l’esterno del tavolo,
scandendo un silenzioso conto alla rovescia, mentre noi due immobili attendevamo
l’imminente caduta. Era sua, feci per raccoglierla, ma frettolosamente mi anticipò,
sgusciando sotto il tavolo.
Era
difficile comprendere Luca, pur intuendo cosa tramasse, il suo comportamento imprevedibile
me lo rendeva semplicemente enigmatico. Lo sentii sbattere più volte contro la mia
gamba: ma dov’era finita quella biro? Quanto ci voleva per raccoglierla? Finché
a tradimento m’accorsi di non riuscir più a chiudere le gambe. Neanche il tempo
di scoprire la natura dell’ingombro che mi sentii sfilare l’uccello delle
mutande: – Ma Luca, che fai? – gli chiesi facendomi indietro: stava
inginocchiato tra le mie gambe, all’ombra del tavolo, tenendo saldamente la mia
verga.
–
Ti faccio una sega! – esclamò convincente, lì per lì non capii se fosse una
proposta oppure un’imposizione, ma compresi che un no non era contemplato.
–
Adesso…! Mentre sto studiando!
–
Sì, perché no? – mi disse esortandomi al sì – Dovrebbe essere più divertente,
no? – in effetti non aveva tutti i torti, era una fantasia intrigante, e poi
non sarebbe stato la prima volta che mi stuzzicavo l’uccello mentre studiavo: magari
soprappensiero, la mano finiva sempre lì.
–
Sì! però non altro… –; annuì. Non credo fosse tanto intenzionato a masturbarmi,
quanto più a creare un precedente: per avere una prossima volta una carta da
spendere a ruoli invertiti.
Presto
dovetti ricredermi: studiare stuzzicandosi l’uccello era cosa ben diversa che avere
uno che ti masturba divinamente. Anche se all’inizio credevo di potermi
concentrare, dopo qualche riga mille immagini mi si paravano davanti,
impedendomi di continuare. La sega mi prendeva completamente; e pure lui,
secondo me, se la stava godendo: già me lo vedevo soddisfatto che per
l’eccitazione ci dava là sotto di mancina. Andai col piede a indagare le sue
sotterranee attività, tastando il suo morbido fagottino all’incrocio degli
inguini. Che bella sensazione sentire quella cedevole resistenza: era come
pigiare su di un acceleratore: più premevo, più la sua foga aumentava.
Chi
aveva più voglia di studiare con quella sega fantastica? A fanculo i libri! Poi
sentii la mano di Luca farsi più pesante e liberarmi la cappella… bravo
bambino! Percepii tutto improvvisamente più bello, più umido, più avvolgente. Non
potevo toccarlo, così posai i palmi aperti sul tavolo; lo sentivo: le sue
labbra si muovevano avanti e indietro con foga e decisione; premevo sul tavolo,
quando un colpo secco provenne da sotto il tavolo: toc!
–
Luca! – esclamai, abbassandomi preoccupato.
Sferrò
con stizza un pugno alla gamba centrale del tavolo, poi tornò a trattenersi
dolorosamente la testa, e con gli occhietti stretti quasi piangenti. Doveva
essersi fatto veramente male se quello era spigolo dove aveva sbattuto, spigolo
che anch’io conoscevo bene da piccolo per lo stesso motivo.
–
Dai, Luca, vieni fuori… fammi vedere! – gli allungai le mani per traghettarlo fuori,
accogliendolo tra le mie braccia, come un cucciolotto ferito. Che bello, però,
sentirlo così bisognoso di me. Tranquillizzandolo, con delicatezza ruppi la
resistenza dell’intreccio delle sue dita sopra la testa, mentre con apprensione
accarezzavo la sua criniera in cerca di qualche goccia scarlatta. Indugiai un
po’ per poter accarezzare ancora la sua chioma morbida, di lui che in fondo sembrava
gradire le mie amorevoli attenzioni. Tentai di scorgere meglio: forse si
trattava di un taglietto sottile, di quelli che si vedono come ritardo, ma non
appariva niente neanche col trascorrere del tempo, peccato… già mi figuravo
mentre lo medicavo. C’era però poca luce
nella stanza, così lo portai in cucina, pensando a come, nel frattempo, quell’episodio
poteva sembrar provvidenziale per fargli capire di non far troppo il capetto
emancipato.
–
Ahi!
–
Ma se non t’ho nemmeno toccato! Su, non facciamo d’un bernoccolo una tragedia!
–
Sarà anche solo un bernoccolo, ma a me fa male! – oh povero, com’era delicato.
–
Spetta che ti do del ghiaccio.
Cuki,
del ghiaccio, e uno straccio per avvolgere il tutto, come prescrivono i manuali
del primo soccorso, ed ecco il rimedio per il suo “atroce” dolore, di lui che ancora
si teneva la testa con le mani come se gli stesse per saltar via. Mentre
completavo l’impacco, Niki irruppe in cucina catalizzando la sua attenzione, e
anche il dolore, visto che sembrava sparito.
–
Ma allora ti fa male o no?
–
Certo, che mi fa male! – disse con ostentazione.
–
Bene! Allora lasciami stare il gatto e mettici sopra questo…
–
Ma che è? Non c’ho mica una testona da elefante!
– disse guardando l’impacco, che per l’inesperienza avevo sovradimensionato: almeno
il senso dell’umorismo non gli era passato. – Comunque sei sicuro che non mi sono
tagliato… – sembrava quasi ci tenesse ad essersi fatto male: chissà, forse
voleva una scusa per non andare a scuola domani…
–
Fammi rivedere… – era piacevole tenere la sua cavezza tra le mani, così morbida
che quasi me la sarei stratta al petto come quando stringevo il gatto.
–
No, non hai niente… non ti preoccupare: non ti dovranno dare dei punti…
–
Eh già! fa’ il dottorone adesso: “ non ti dovranno dare dei punti”! – polemizzò,
con un tono così antipatico da sembrare proprio volere attaccar brighe: o la
botta in testa doveva essere stata più forte del previsto, o forse voleva solo
litigare per scaricare su di me la sua frustrazione, per la goffaggine appena
mostrata. Ma non gli avrei dato questa soddisfazione, conoscevo le tecniche di
scaricabarile: ero nato prima di lui in fondo, e non mi sarei fatto trascinare sul
fondo da un pivellino.
–
No, non faccio il dottorone… è che ho esperienza in queste cose: una volta mi
han dato tredici punti! – scoprii il polpaccio, per mostrargli la cicatrice biancastra
fatta tre anni prima col Ciao truccato di un amico. Dovetti poi raccontargli
per filo e per segno tutta la faccenda, compreso come avevo contrabbandato quell’incidente
per una rovinosa caduta in bicicletta, altrimenti ora col cavolo che avrei
avuto il motorino. L’atroce dolore sembrava passato: – Si vede che il ghiaccio
t’ha desensibilizzato ‘sta capoccia vuoto… – e mentre lui mi guardò
bonariamente storto, gli misi una mano sulla spalla - …dai, malatino, andiamo!
Non
appena gli diedi le spalle: – Dottore! Dottore! –, mi senti trattenere per il
polso: – …non mi sento tanto bene: mi sento duro qui, e faccio fatica a
piegarmi! – portò la mano sul suo pacco.
“Cinno
maledetto” dissi tra me e me per quella trovata. Poi, sentendo quel turgore
palpitante, entrai nella parte: – Mmh… in effetti qualcosa c’è, mi faccia vedere…
– lo spinsi con decisione contro lo spigolo del tavolo: – Quanti anni ha,
giovanotto? – con goduria gli abbassai la cerniera.
–
Quattordici… –, slacciai la cintura.
–
Uh, è giovane! e sente, per caso, anche male alla testa?
–
Sì, come ha fatto a indovinare… Proprio come se avessi appena dato una
capocciata!
–
E già… immaginavo! – finalmente glielo sfilai dalle mutande: – Eh, ma che
roba…! – dissi con una voce da Pozzetto davanti a quell’enorme cazzone
all’insù.
–
Allora… va tutto bene, vero? – continuò, ridendo.
–
No no… anzi, è gravissimo! Lo vede sto coso qua? – afferrai quella verga durissima
– Non dovrebbe proprio esserci! Qui dovrebbe esserci tutto piatto!
–
Oh mio dio! E che si può fare…– mi disse con una voce furbetta: – si può
curare?
-
Sì sì, benissimo! e conviene farlo al più presto! – aprii il cassetto del tavolo – Anzi lo
facciamo subito… una bella amputazione e non se ne parla più! – dissi,
estraendo un lungo coltellaccio.
–
Sto CAZZO! – disse, portandosi le mani al genitale.
–
Come hai… ehm, ha detto? – continuai la recita.
–
Come amputare!? – Sembrava un calciatore sulla barriera difensiva.
–
E sì, in questi casi è la soluzione migliore… un bel taglio netto… – feci segno
col coltello – …e non se ne parla più!
–
Ma è proprio necessario? In fondo non mi dà così fastidio…, e magari guarisce
da solo!
–
No, no! Non guarisce mica… – gli infilai la mano nelle mutande per rendergli
visibili i testicoli: – li vede questi due cosi qua… – indicandoli
alternativamente con la punta del coltello – non dovrebbero proprio esserci: si
sta propagando, dobbiamo amputare tutto e subito. – Mi rapì nel frattempo il
riflesso del suo pene nella lama del
coltello, mentre cercavo d’angolarlo per farcelo entrare tutto, senza però trovare
la giusta inclinazione: – … questo bisturi però è troppo: per un affarino del
genere basta anche meno…
–
Affarino ci sarai tu! – disse indispettito, mentre rifrugavo nel cassetto.
–
Come ha detto? non ho capito…
–
Niente… niente! Ehm… mi chiedevo, piuttosto, se non c’era un metodo alternativo…
–, ammiccò con l’occhiolino.
–
Sì, ci sarebbero, però in fondo sono inutili appendici: meglio levarle…
–
Però, io ci sarei affezionato a queste mie… “appendici”…
–
Ma è tutta roba moderna, roba new age…
cose inaffidabili…, io sono per la tradizione! Meglio un bel taglio e via…
–
Ma insisto: io sono moderno. E mi piace pure questa roba… new age.
–
Uffa, ma il medico pietoso fa la piaga purulenta!
–
Eh...? – rimase con la bocca aperta e lo guardo stralunato: probabilmente non aveva
mai sentito il proverbio. Posai il coltello e lo presi per l’uccello: – Dai vieni…
Com’era
bello trascinarlo per quel testimone improprio di staffetta; una staffetta che
prima aveva visto lui in gioco e tra non molto me. Lo portai in salotto, gli
abbassai i pantaloni quel quanto bastava e poi lo spinsi a sedere sul divano
nella sua più completa passività. Vacca com’era bello con quell’uccello
svettante! mi sedetti alla sua sinistra e iniziai a segarlo. Dovevo riprendermi
quello che la volta scorsa mi aveva sottratto con la sua fuga improvvisa. Mi
sentivo bene a masturbarlo, quasi lo facessi a me stesso; sentire qualcosa di duro
e lungo in mano, ma di un altro, aveva un epilogo travolgente sulla mia mente:
lo sentivo mio, sentivo quasi un senso di possesso del suo corpo, del suo coso,
di lui stesso, perfino del suo pensiero.
Ero
indeciso se guardare con soddisfazione il suo pene oppure la sua faccia goduriosa,
in quel momento ci sarebbe servito un pittore cinquecentesco per immortalarne l’estasi
gioiosa. Un desiderio pulsante mi crebbe di tenerlo ancora volta in bocca: –
Vede che questa cura non funziona… – a quel punto Luca mi guardò come se lo
stessi prendendo in giro – Ci vuole la cura intensiva!… – e mi abbassai verso il
suo splendido uccello.
Era
appena il terzo pompino che gli facevo ritrovatolo dalle vacanze, eppure sentivo
con quella parte di lui una sintonia incredibile, una famigliarità atavica, che
oltrepassava i limiti del tempo. Succhiavo quel pene tornito e Luca gemeva;
sentivo questa volta un qualcosa in più: il piacere vivido d’introdurre il suo
lungo arnese nella mia bocca, che diversamente dalle altre non era solo un
semplice bisogno di sfogarmi. Quel senso di pienezza, quella fragranza, in
quell’istante ispiravano un vago senso di poesia, ma avevo il bisogno di
qualcosa in più di lui. Luca mi poggiò la mano sulla testa e già sentivo le
prime sue stille di sperma; ecco finalmente quello che volevo… succhiai, e più
succhiavo più ne usciva: liquido, aromatico abbondante, ma non ne ricordavo
tutta quella gran copia l’ultima volta!, mi sentivo colmato, dovetti deglutirne
un po’ per farne spazio all’altro che arrivava.
–
Csh csh! can Luca, ma quant’è che non
vieni… csh csh! – mi venne una
tossetta dal vago sapore del suo sperma.
–
Perché…? – rispose con un sorrisetto compiaciuto.
–
Eh! ...prova ad arrivarci… – mentre il mio singulto non si fermava.
–
Non so… qualche giorno, comunque…
Qualche
giorno…! Ma come faceva a resistere quel mocciosetto? che io da che l’avevo rincontrato
non riuscivo più a stare un giorno senza farmene una, e per l’eccitamento
capitava pure che, quando se ne andava, riprendevo ad ammazzarmi di seghe! Ora
m’aspettavo, perlomeno, che si facesse avanti per il suo turno visto che prima
non aveva concluso, ma dopo essersi tirato sù la cerniera, lo vidi muore un
passo nella direzione opposta.
–
Scusa dove pensi di andare? – Dopo averlo fermato per un polso, s’arrestò
sorridendo: – Non vedi che anch’io sono bisognoso di cure?! – gli indicai
l’enorme bozzo sotto la mia tuta.
Tornato
su’ suoi passi, salì in ginocchio sul divano dov’era prima seduto, ergendosi
più alto di me, mi guardò dall’alto in basso con un sorriso malizioso e poi si
accovacciò scoprendomelo dai vestiti. Toccò un attimo in punta di dita il segno
umidiccio del mio eccitamento su quell’accenno di glande scoperto dal mio turgore;
mi ricordò l’umido tocco della sua lingua, era così delicato quasi temesse di
farmi del male, poi cominciò la sega sorridendomi nuovamente come a chiedermi
se ero felice.
–
Passa direttamente alla cura intensiva… – l’esortai, e Luca prontamente abbassò
la pelle e girò attorno la lingua. L’adoravo quando prendeva l’ iniziativa; poi
cominciò la vera pompa. Non sapevo dove posare le mani: sulla sua testa avevo
paura di fargli male, ma volevo toccarlo; così, piano, accarezzandolo, gli
sfilai la maglietta mal posta sotto i jeans, scoprendogli l’inizio della
schiena; trovavo eccitante il suo fianco snello, così presi ad accarezzarlo con
mossette fugaci e a incitarlo con qualche sì. Alle mie incitazioni cominciò a
succhiarlo più forte, e io non potevo far altro che gingillarmi con la sua
colonna vertebrale, sconfinandogli ogni tanto sotto l’elastico delle mutande.
“Dai, Luca…”; “su Luca…” dicevo nel mio maldestro tentativo d’imitarlo nei suoi
versi di godimento, mentre lui sentendomi giungere adeguava il succhiamento: – Luca,
preparati! – non riuscivo a esimermi dall’avvisarlo: – sto venendo… – e succhiò
con avarizia ogni mia goccia di sperma. Tornò su, passandosi il dorso della
mano sulla bocca come se avesse fatto una grandiosa scorpacciata, e sorridermi
accattivante sembrò quasi chiedermi se anch’io ora ero soddisfatto.
Stavo
ancora con l’uccello di fuori, quando tentò nuovamente la fuggita; ma dove
voleva scappare quel bel biondino? Lo bloccai per un braccio, mentre lui mi
guardò incuriosito: – Ma dove vuoi scappare…? – e me lo tirai vicino, cercando
caricarmelo addosso. Nella mia mente mi ero figurato un lento adagiamento, ma sottovalutando
le forze in campo, crollammo rovinosamente sul divano. Luca era a pochi
centimetri dal mio naso, le nostre labbra per poco non si sfiorarono: divenni
rosso per l’imbarazzo. – Ma ti piaccio così tanto? – mi disse con un tono
divertito, ma serio nell’essenzialità della sua domanda.
Cosa
aveva voluto dire? …un campanello
d’allarme scosse la mia anima: mai un “ma” iniziale mi sembrò così cupo; e poi
cosa voleva intendere con “piacere”? Come amico? Come persona? Fisicamente? Esteriormente?
Io lo trovavo semplicemente… sentivo per lui un…, ma che rispondergli… la
verità… Quale verità? E lui: perché me lo aveva chiesto a quel modo? Una
domanda così formulate presupponeva che, qualsiasi cosa fosse, il mio provare fosse
scontatamente più profondo del suo! Che provava lui? Magari il suo sentire era
più superficiale del mio…, un ghiribizzo, uno sfogo sessuale in attesa della
ragazza.
–
Cosa!... volevo solo giocare! – gli dissi, scapigliandogli i capelli per
sdrammatizzare.
– Ahia! – si lamentò piuttosto
seccato: – Ma sei scemo?!
–
E te l’avevo detto di tagliare, ma tu non m’hai voluto ascoltare! – gli
abbassai la testa per poterla guardare: – Forse è meglio che chiami i tuoi, se
ti fa così male...
–
No! No! Riesco ad andare a casa… – contento lui… io me lo sarei tenuto un altro
po’ con la fronte poggiata sul mio petto a carezzarmelo, ma visto che avevo
appena evitato un discorso potenzialmente imbarazzante, meglio troncarne ogni
altro sul nascere: – Dai che abbiamo già perso anche fin troppo tempo, su!
–
Già… – si alzò, tenendosi ancora una mano sulla parte dolorante della nuca.
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