Ero riuscito a confinare Niki in casa e,
ancora meglio, a convincerlo a stare sul tavolo in sala, corrompendolo con qualche
croccantino; speravo solo che, come la solito, quello sclerotico d’un gatto non
si fosse scappato via non appena avvistato Luca: gli avevo promesso che oggi
l’avrebbe visto, e ci sarei riuscito!
Quando Luca arrivò, notò subito Niki sul
tavolo, buttò lo zaino per terra e corse immediatamente dal gatto, senza neanche
degnarmi d’uno sguardo. – Ma ciao! – gridò con vocina da bambino efebico,
contornandolo con le braccia – …come si chiama, Alle?
– Niki.
– Niki… ma ciao! Ma come sei bello! –
continuava, con voce acuta e infastidente, calcando su tutte le “i”. Avevo
fatto una fatica boia a convincere gatto matto a sostare sul tavolo, o meglio a
costringerlo, e ora lui non mi si filava di striscio… continuava solo a lisciare
il pelo di quel gattaccio; ma la prossima volta col cacchio che lo avrei accontentato!
mi avrebbe dovuto pregare. Ormai di troppo, mi misi a studiare, mentre Luca
continuava a giocare con quel ruffiano – oggi più che mai! – che si era messo a
pure fargli le fusa, sotto le sue moine gentili.
– Allora Luca mi lascia stare il gatto!
– Non te lo mangio mica…
– No, ma vederti giocare mi distrae!
Finalmente Luca si stufò di far rotolare
il gatto sul tavolo, sventolandogli davanti una fettuccia di carta, e si sedette
a studiare. C’era qualcosa d’incredibilmente affine tra quei due: tra il suo giovanile
profilo, chino sui libri, e quello Niki, che mi guardava socchiudendo gli occhi
felini, sarà stata la dolce rotondità della loro nuca, oppure quel loro essere
così enigmatici, insondabili, a volte sornioni, a volte giocosi.
Luca, quest’oggi, pareva non aver proprio
voglia di studiare: ogni tanto smetteva di scrivicchiare sui suoi libri e mi segnava
di biro il dorso della mano, beato lui che aveva poco da fare! Sembrava perfino
più euforico del solito, ma meglio così… perché aveva qualcosa da farsi
perdonare dall’ultima volta. Finiti i compiti, si fiaccò pure di punzecchiarmi
inutilmente, scarabocchiandomi i quaderni, e visto che non reagivo tentò di
disturbarmi, chiedendomi da bere: – Sai già dov’è, prenditela da solo! Prima mi
lasci finire, prima faremo altro… –, speravo solo che intendesse il messaggio
sottinteso. Mi fissò un attimo e si levò di torno. Al suo ritorno, mi strusciò
provocatoriamente una mano sulla schiena e poi si sedette guardandosi in giro,
con aria di peste in cerca di guai: – Il gatto dov’è?
– Sarà andato via, non credo si diverta a
farti da giocattolo! – e si guardò nuovamente intorno.
– Ah! ma avete un piano! – esclamò,
fissando il vecchio mobile alle nostre spalle. – …quando l’avete messo?
– È sempre stato lì, sei tu che non
l’hai visto!
– Impossibile! – affermò: ovviamente, a
un piccolo superomino come lui non poteva scappare niente!
Si portò sullo sgabellino a fronte. – Lo
sai suonare? – mi chiese, alzando il coperchio della tastiera.
– Chi: io? No, lo sa usare un po’ mia
madre – infatti, era lì più per bellezza, che per l’utilità.
– E tu non lo sai usare! Ve’, ch’è
facile: è più facile che la chitarra. Prova! – mi invitò con tono esortativo, si
vede che qualcosa doveva saper strimpellare.
– Non ci provare… io per la musica sono
negato, non sapevo suonare neppure il flauto delle medie!
E mi rimisi a studiare. Luca, intanto, incominciò
a esaminare quel vecchio piano verticale, che per il disuso e l’abitudine avevo
praticamente dimenticato; balbettò qualche tasto e poi iniziò timidamente ad
accennare qualche brano che il mio intelletto inconsciamente riconosceva. Si
prodigò pure a spiegarmi del perché lo sapesse suonare, di suo padre da giovane…
eccetera, eccetera, eccetera; ma io avevo ben altro a cui pensare, e presto quella
musichetta e la sua voce divennero il piacevole sottofondo del mio studiare.
Riconoscevo, a tratti, qualche ritornello
televisivo, o la musichetta del Tetris, o un pezzo di Cremonini o, qua e là, note
parse di classica, riaffioranti dai ricordi delle medie. Divenne presto un impercettibile
rumore di fondo, come una radio che spezza la monotonia nell’aria, allietando
il mio leggere righe di testo che scorrevano ritmiche sotto le mie dita come
gli accenti sotto le battute di Luca. Poi, senz’avviso, l’interruzione;
l’improvviso silenzio m’irritò, come un brusco risveglio: – Alle… –, mi voltai –
ma poi… – fischiettò, con la mano ondeggiante sul pube, che gli avrei fatto un
pompino. Ma come si permetteva!
– Senti! facciamo così: io faccio finta
di non aver visto nulla, perché se no, la prossima volta, giuro, vengo lì e ti pesto.
Capito?
– Sì, sì… – si voltò ridacchiando, quasi
a volermi dire: “tanto lo so che me lo vuoi fare”; ma che stava successo?
cos’era quest’ammutinamento? Spartacus!
e per di più in casa mia… Tornai sui miei libri, mentre quello strimpellare
riprendeva, ma non riuscivo più ad avanzare d’una parola: avevo davanti agli
occhi quel gesto così esplicito, e sotto la sua mano la mia testa che andava su
e giù… per quel lungo arnese. Quell’estemporanea interruzione mi aveva
scombussolato: studiavo, cercavo, mi sforzavo, ma Luca mi aveva acceso un irreprimibile
prurito che non riuscivo più a placare, non riuscivo a calmarmi: la gamba
dondolava per conto suo, sentivo spilli sotto il sedere, e un formicolio
invadente mi rendeva insopportabile ogni mia posizione; mi dovevo alzare.
Silenziosamente mi alzai – non volevo che si rendesse conto di avermi turbato –,
per fare due passi nella stanza; forse del moto avrebbe placato il mio spirito,
ma niente. Quando mi voltai, rividi Luca ancora intento a suonare con le sue mani
che scorrevano su quei tasti bianchi e neri. Era così eccitante, là seduto di
schiena con quel bel coppino raso e sottile, mi veniva voglia di mordicchiarlo.
Mi avvicinai alle sue spalle, tirai fuori l’uccello, già duro, e lo scappellai:
– Tieni Luca, suonati anche questo! –, porgendoglielo di fianco. Luca si voltò:
– Ah! –, lo prese in mano e senza indugio
ne mise in bocca mezza cappella, iniziando a mimare di suonare un flauto mentre
mi aspirava al cappella. Non mi sarei mai aspettato una reazione così composta
e spontanea; era fantastico, senza il minimo preliminare prese a succhiarlo voracemente.
Tutti quegli spilli, tutto quel prurire ora s’erano coniugati in punta al mio
uccello, sotto la sua lingua goduriosa; le gambe non mi reggevano più, sentivo
il bisogno di un appoggio. Trovai una sedia, l’avvicinai. Ma Luca non smetteva
il suo inesorabile lavorio. Lentamente mi abbassai per sedermi, con lui che, senza
smettere, mi seguiva nel mio moto discendente, smontando dallo sgabello e
inginocchiandosi tra le mie gambe. Ora sì che mi potevo finalmente rilassare e
godere appieno il suo inaspettato regalino.
Mi portò le mutande alle caviglie, aveva
un qualcosa di diabolico, oggi, il suo fare libidinoso. Non so donde traesse
tutta quella foga improvvisa: mi stavo perdendo nel fantastico del suo
succhiare, lo sentivo esercitarsi con la mano, in mille modi, per farmi godere,
tenendomi variegatamente i testicoli, così sapientemente che neanch’io avrei
saputo fare coi suoi. Rammentandomi del suo gesto, poggiai la mano sulla sua
testa: avrebbe dovuto segnalare la sua sottomissione, ma io non ero certo di
chi governasse veramente la situazione. Non avevo neppure bisogno di spingergli
la testa, perché ci pensava già di suo a inghiottirne il più possibile, ogni
volta vedevo quasi mezza bega sparire tra le labbra. Come s’un ascensore
sentivo la mano accompagnata su e giù, mentre accarezzavo i suoi capei d’oro;
sentivo l’orgasmo raggiungere il traguardo, “Luca non fermarti”, presto avrebbe
ottenuto quello che anche lui tanto voleva, sbrodolando il mio seme dentro di
sé. “Allora Luca, è quello che vuoi… preparati piccolo!” pensavo fra me e me;
ecco, lo sentivo, l’acme lì lì per giungere, anche lui se ne accorse, e si
concentrò a ciucciarmi la cappella; eccolo! continuava e continuava…, non gli
esplosi poi molto, ma quell’insaziabile mi stava veramente prosciugando,
nonostante che non uscisse più niente.
Ero sfinito, Luca lo tirò fuori di bocca
e poi si alzò in piedi. In quel momento, il suo cavallo rigonfio davanti ai miei
occhi mi invitava tangerlo con le dita, ma appena fui abbastanza vicino da
sfiorarlo con la mano, indietreggiò: – devo andare… – disse, con tono mogio e guardo
basso.
– Perché?!
– Ho lezione…
– Ma oggi
non è giornata!
– Questa settimana sì: hanno rimandato
l’allenamento…
Mi sentivo patetico a mendicante un
pezzo del suo pene, lì con un braccio proteso, su una sedia e le mutande calate,
mentre lui ritto, come un soldatino ligio al suo dovere, dichiarava l’onorevole
ritirata dal campo; dovevo ricompormi. Mi alzai, rimettendo tutto a posto. Era
mogio, con lo sguardo basso; e pensare che quel mingherlino stava andando ad
arti marziali mi faceva rabbia: scommetto che se gli avessi dato un pugno nello
stomaco sarebbe svenuto al primo colpo e avrei potuto fargli quello che voglio…
Ma che razza di pensieri mi venivano in mente!
– Allora vai, è meglio che vai… che io
devo anche finire di studiare! – non mi veniva altro in mente, per darmi un
tono, che farlo soffrire facendogli intendere che dopo il suo servigio per me
poteva pure andarsene; ma non era vero: fosse stato per me, avrei concluso in
ben altro modo quel pomeriggio.
Sempre mestamente, prese tutta la sua
roba e se ne andò. Non lo accompagnai nemmeno alla porta, ma di nascosto spostai
la tenda per vederlo andar via: quel primino aveva fatto il pieno e ora se ne
stava andando, ma la prossima volta non se la sarebbe cavata con così poco!
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