13 giugno 2019

Il flauto

Ero riuscito a confinare Niki in casa e, ancora meglio, a convincerlo a stare sul tavolo in sala, corrompendolo con qualche croccantino; speravo solo che, come la solito, quello sclerotico d’un gatto non si fosse scappato via non appena avvistato Luca: gli avevo promesso che oggi l’avrebbe visto, e ci sarei riuscito!
Quando Luca arrivò, notò subito Niki sul tavolo, buttò lo zaino per terra e corse immediatamente dal gatto, senza neanche degnarmi d’uno sguardo. – Ma ciao! – gridò con vocina da bambino efebico, contornandolo con le braccia – …come si chiama, Alle?

– Niki.
– Niki… ma ciao! Ma come sei bello! – continuava, con voce acuta e infastidente, calcando su tutte le “i”. Avevo fatto una fatica boia a convincere gatto matto a sostare sul tavolo, o meglio a costringerlo, e ora lui non mi si filava di striscio… continuava solo a lisciare il pelo di quel gattaccio; ma la prossima volta col cacchio che lo avrei accontentato! mi avrebbe dovuto pregare. Ormai di troppo, mi misi a studiare, mentre Luca continuava a giocare con quel ruffiano – oggi più che mai! – che si era messo a pure fargli le fusa, sotto le sue moine gentili.
– Allora Luca mi lascia stare il gatto!
– Non te lo mangio mica…
– No, ma vederti giocare mi distrae!
Finalmente Luca si stufò di far rotolare il gatto sul tavolo, sventolandogli davanti una fettuccia di carta, e si sedette a studiare. C’era qualcosa d’incredibilmente affine tra quei due: tra il suo giovanile profilo, chino sui libri, e quello Niki, che mi guardava socchiudendo gli occhi felini, sarà stata la dolce rotondità della loro nuca, oppure quel loro essere così enigmatici, insondabili, a volte sornioni, a volte giocosi.

Luca, quest’oggi, pareva non aver proprio voglia di studiare: ogni tanto smetteva di scrivicchiare sui suoi libri e mi segnava di biro il dorso della mano, beato lui che aveva poco da fare! Sembrava perfino più euforico del solito, ma meglio così… perché aveva qualcosa da farsi perdonare dall’ultima volta. Finiti i compiti, si fiaccò pure di punzecchiarmi inutilmente, scarabocchiandomi i quaderni, e visto che non reagivo tentò di disturbarmi, chiedendomi da bere: – Sai già dov’è, prenditela da solo! Prima mi lasci finire, prima faremo altro… –, speravo solo che intendesse il messaggio sottinteso. Mi fissò un attimo e si levò di torno. Al suo ritorno, mi strusciò provocatoriamente una mano sulla schiena e poi si sedette guardandosi in giro, con aria di peste in cerca di guai: – Il gatto dov’è?
– Sarà andato via, non credo si diverta a farti da giocattolo! – e si guardò nuovamente intorno.
– Ah! ma avete un piano! – esclamò, fissando il vecchio mobile alle nostre spalle. – …quando l’avete messo?
– È sempre stato lì, sei tu che non l’hai visto!
– Impossibile! – affermò: ovviamente, a un piccolo superomino come lui non poteva scappare niente!
Si portò sullo sgabellino a fronte. – Lo sai suonare? – mi chiese, alzando il coperchio della tastiera.
– Chi: io? No, lo sa usare un po’ mia madre – infatti, era lì più per bellezza, che per l’utilità.
– E tu non lo sai usare! Ve’, ch’è facile: è più facile che la chitarra. Prova! – mi invitò con tono esortativo, si vede che qualcosa doveva saper strimpellare.
– Non ci provare… io per la musica sono negato, non sapevo suonare neppure il flauto delle medie!
E mi rimisi a studiare. Luca, intanto, incominciò a esaminare quel vecchio piano verticale, che per il disuso e l’abitudine avevo praticamente dimenticato; balbettò qualche tasto e poi iniziò timidamente ad accennare qualche brano che il mio intelletto inconsciamente riconosceva. Si prodigò pure a spiegarmi del perché lo sapesse suonare, di suo padre da giovane… eccetera, eccetera, eccetera; ma io avevo ben altro a cui pensare, e presto quella musichetta e la sua voce divennero il piacevole sottofondo del mio studiare.
Riconoscevo, a tratti, qualche ritornello televisivo, o la musichetta del Tetris, o un pezzo di Cremonini o, qua e là, note parse di classica, riaffioranti dai ricordi delle medie. Divenne presto un impercettibile rumore di fondo, come una radio che spezza la monotonia nell’aria, allietando il mio leggere righe di testo che scorrevano ritmiche sotto le mie dita come gli accenti sotto le battute di Luca. Poi, senz’avviso, l’interruzione; l’improvviso silenzio m’irritò, come un brusco risveglio: – Alle… –, mi voltai – ma poi… – fischiettò, con la mano ondeggiante sul pube, che gli avrei fatto un pompino. Ma come si permetteva!
– Senti! facciamo così: io faccio finta di non aver visto nulla, perché se no, la prossima volta, giuro, vengo lì e ti pesto. Capito?
– Sì, sì… – si voltò ridacchiando, quasi a volermi dire: “tanto lo so che me lo vuoi fare”; ma che stava successo? cos’era quest’ammutinamento? Spartacus! e per di più in casa mia… Tornai sui miei libri, mentre quello strimpellare riprendeva, ma non riuscivo più ad avanzare d’una parola: avevo davanti agli occhi quel gesto così esplicito, e sotto la sua mano la mia testa che andava su e giù… per quel lungo arnese. Quell’estemporanea interruzione mi aveva scombussolato: studiavo, cercavo, mi sforzavo, ma Luca mi aveva acceso un irreprimibile prurito che non riuscivo più a placare, non riuscivo a calmarmi: la gamba dondolava per conto suo, sentivo spilli sotto il sedere, e un formicolio invadente mi rendeva insopportabile ogni mia posizione; mi dovevo alzare. Silenziosamente mi alzai – non volevo che si rendesse conto di avermi turbato –, per fare due passi nella stanza; forse del moto avrebbe placato il mio spirito, ma niente. Quando mi voltai, rividi Luca ancora intento a suonare con le sue mani che scorrevano su quei tasti bianchi e neri. Era così eccitante, là seduto di schiena con quel bel coppino raso e sottile, mi veniva voglia di mordicchiarlo. Mi avvicinai alle sue spalle, tirai fuori l’uccello, già duro, e lo scappellai: – Tieni Luca, suonati anche questo! –, porgendoglielo di fianco. Luca si voltò: – Ah! –,  lo prese in mano e senza indugio ne mise in bocca mezza cappella, iniziando a mimare di suonare un flauto mentre mi aspirava al cappella. Non mi sarei mai aspettato una reazione così composta e spontanea; era fantastico, senza il minimo preliminare prese a succhiarlo voracemente. Tutti quegli spilli, tutto quel prurire ora s’erano coniugati in punta al mio uccello, sotto la sua lingua goduriosa; le gambe non mi reggevano più, sentivo il bisogno di un appoggio. Trovai una sedia, l’avvicinai. Ma Luca non smetteva il suo inesorabile lavorio. Lentamente mi abbassai per sedermi, con lui che, senza smettere, mi seguiva nel mio moto discendente, smontando dallo sgabello e inginocchiandosi tra le mie gambe. Ora sì che mi potevo finalmente rilassare e godere appieno il suo inaspettato regalino.
Mi portò le mutande alle caviglie, aveva un qualcosa di diabolico, oggi, il suo fare libidinoso. Non so donde traesse tutta quella foga improvvisa: mi stavo perdendo nel fantastico del suo succhiare, lo sentivo esercitarsi con la mano, in mille modi, per farmi godere, tenendomi variegatamente i testicoli, così sapientemente che neanch’io avrei saputo fare coi suoi. Rammentandomi del suo gesto, poggiai la mano sulla sua testa: avrebbe dovuto segnalare la sua sottomissione, ma io non ero certo di chi governasse veramente la situazione. Non avevo neppure bisogno di spingergli la testa, perché ci pensava già di suo a inghiottirne il più possibile, ogni volta vedevo quasi mezza bega sparire tra le labbra. Come s’un ascensore sentivo la mano accompagnata su e giù, mentre accarezzavo i suoi capei d’oro; sentivo l’orgasmo raggiungere il traguardo, “Luca non fermarti”, presto avrebbe ottenuto quello che anche lui tanto voleva, sbrodolando il mio seme dentro di sé. “Allora Luca, è quello che vuoi… preparati piccolo!” pensavo fra me e me; ecco, lo sentivo, l’acme lì lì per giungere, anche lui se ne accorse, e si concentrò a ciucciarmi la cappella; eccolo! continuava e continuava…, non gli esplosi poi molto, ma quell’insaziabile mi stava veramente prosciugando, nonostante che non uscisse più niente.

Ero sfinito, Luca lo tirò fuori di bocca e poi si alzò in piedi. In quel momento, il suo cavallo rigonfio davanti ai miei occhi mi invitava tangerlo con le dita, ma appena fui abbastanza vicino da sfiorarlo con la mano, indietreggiò: – devo andare… – disse, con tono mogio e guardo basso.
– Perché?!
– Ho lezione…
– Ma oggi non è giornata!
– Questa settimana sì: hanno rimandato l’allenamento…
Mi sentivo patetico a mendicante un pezzo del suo pene, lì con un braccio proteso, su una sedia e le mutande calate, mentre lui ritto, come un soldatino ligio al suo dovere, dichiarava l’onorevole ritirata dal campo; dovevo ricompormi. Mi alzai, rimettendo tutto a posto. Era mogio, con lo sguardo basso; e pensare che quel mingherlino stava andando ad arti marziali mi faceva rabbia: scommetto che se gli avessi dato un pugno nello stomaco sarebbe svenuto al primo colpo e avrei potuto fargli quello che voglio… Ma che razza di pensieri mi venivano in mente!
– Allora vai, è meglio che vai… che io devo anche finire di studiare! – non mi veniva altro in mente, per darmi un tono, che farlo soffrire facendogli intendere che dopo il suo servigio per me poteva pure andarsene; ma non era vero: fosse stato per me, avrei concluso in ben altro modo quel pomeriggio.
Sempre mestamente, prese tutta la sua roba e se ne andò. Non lo accompagnai nemmeno alla porta, ma di nascosto spostai la tenda per vederlo andar via: quel primino aveva fatto il pieno e ora se ne stava andando, ma la prossima volta non se la sarebbe cavata con così poco!

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