24 agosto 2019

Finalmente a cena

Comparve in cucina una gran buffa macchia scura, quasi un omino Michelin tutto vestito di nero; ma dov'era finita la sua solita tinta di blu, che lo accompagnava sempre durante le trasferte a casa mia: quella consueta dei suoi jeans oltremare? Poi, in quel groviglio scuri, comparve finalmente un tocco di colore, nel biondo dei suoi capelli, una volta levatosi il casco; ma il su-di-lui mio colore preferito comparve solo alla volta di una distinta camicetta turchese, che, levata la giacca, assieme a quei pantaloni, all'occhio, di pregevole fattura, sembrava formare un completo elegante: ma non era un vero... non era un completo, né un coordinato, né un abito da sera, ma solo un semplice abbinamento: solo da lui così impeccabilmente portato, da sembrare abbinato dall'occhio esperto di uno stilista finocchio.

– 'mbé, che hai da guardarmi così? – mi chiese, mentre gli trattenevo una mano sulla spalla: era così bello che non riuscivo a staccarmi!
– Niente... e che sei così elegante oggi... – avrei dovuto dirgli che era stupendo, ma mi pareva troppo. – Voltati! – gli ordinai, e lui inorgoglito si piroettò. Non solo la camicia, ma pure i pantaloni erano stupendi: di quel tessuto nero morbido elegante da sera. – Ma che elegantone... – scherzai.
– Oh, mia mamma ha voluto così! – sembrava avessi evidenziato una pecca.
– Capito… ma non c'era bisogno di vestirsi da cresima: mangi da me, mica al ristorante! – e insieme ridemmo.
Sembrava un cioccolatino tutt’avvolto nella sua cartina dorata, pronto per invogliarti ad aprirlo. Non so come resistevo: la mia mano non si staccava da lui, istintivamente attratta da quella “roba bella”; l'avrei violentato lì in quell’istante stesso, su quel tavolaccio duro da cucina: duro come… ehm, ma perché sprecare tutto il tempo adesso, quand’avevamo tutta la giornata davanti?

***


Le parole sui libri scorrevano veloci e perdendo di significato, mentre il mio sguardo scivolava lentamente verso quell’angolino d'azzurro al lato del mio occhio. Il mio muto guardare inorgogliva quell’ospite perfetto, che ben si beava delle mie attenzioni e non perdeva di mettersi in bella mostra, vestito dei più appropriati colori: se il rosso, infatti, specie sui pantaloni, n'esaltava l'intrinseco erotismo, il blu e i suoi affini, ovunque fossero, n'evidenziavano l'innata eleganza; mentre lui continuava a leggere imperterrito, compiaciuto del mio discreto sbirciare.
– Alle, mi controlli qua… – chiese, intercettando il mio sguardo. Oh, finalmente! Stava diventando veramente frustante vederlo arrivare ogni volta a casa mia senza che avesse mai realmente bisogno del mio aiuto: io, che almeno in teoria avrei dovuto esserne il mentore. Credevo quasi, ormai, d’esserci soltanto per appagare il suo implacabile appetito sessuale; ma ora il riscatto. – ...mi provi a vedere se c’è qualcosa che non va? – disse, porgendomi il libro: giustamente, era più facile che ci fosse un errore dell'autore o un refuso dell'editore, piuttosto che una sua distrazione…
– Fa’ vedere! – mi avvicinai con la sedia per vedere il suo quadernetto, anche se quel suo atteggiamento smargiasso mi aveva riaccesa la libido. Mettendo da parte ogni buon proposito d’insegnamento, la mia mano scivolò sul suo pantalone, accarezzando quel fantastico tessuto, così morbido e sottile da sembrar quasi di accarezzare la sua pelle nuda.
– Vedi?... hai dimenticato una x!
– Dove?! – esclamò, come se non fosse possibile. Un suo errore? Giammai!
– Qui! vedi? – gli indicai con soddisfazione l'errore: era come l’aver trovato una piccolissima pecca, un invisibile neo in quella piccola perla di perfezione.
– Ah, ecco! – e senz’indugio corresse l’errore, con la sua mano e la sua fine scrittura, ripassando i rimanenti passaggi dell’equazione. Intanto la mia mano era già finita sul suo interno coscia, accarezzandolo a pochi centimetri dalla fatidica zona, – ...come mai così presto? – mi chiese senza neanche alzare la testa.
– Beh... anche se stasera resti qui, non che abbiamo poi tutto sto tempo! – ce l’aveva già duro! – Ahhhh! – gridai, girandogli la sedia, mentre lui si rizzò assecondando la mia irruenza.
Lo stridìo della sedia fendé l'aria immobile della sala aizzando ancor di più la mia foia animalesca. Un diavolo smanioso si era impadronito di me, delle mie mani, che erano già ad afferrare quella sua tracotante abbondanza, avvicinandomi pure ad inspirare il suo stesso espiro (che emanava come un profluvio amoroso). Luca s’irrigidì, drizzandosi ancor di più e divaricando le gambe per farmi spazio. Il suo respiro si fece più intenso. Purtroppo quei pantaloni non rendevano bene la sua parte anteriore, ma presto il suo fallo fu comunque fuori. Oggi mi sembrava ancor più lungo del solito: forse era il nero a slanciarlo. Iniziai a menarlo; in men che non si dica l'aria si riempì dei suoi afflati amorosi; sentivo già che era lì lì per venire, in bilico sull’orlo del non ritorno, che presto mi avrebbe dato da bere... ma ero io che lo comandavo con quella magica bacchetta di piacere. Non chiedevo altro in fondo che farlo godere: mi soddisfaceva sapere di farlo star meglio, anche se era impossibile logicamente aggiungere qualcosa a ciò che era già per sua natura perfetto. Stavo rischiando di farmelo venire, di vedermelo arrivare in mano: ma non sarebbe successo… mi sarei fermato in tempo. M'implorava di fermarmi, mi chiedeva di fermarmi: ma io no, continuai! Erano fantastiche le sue smorfiette di piacere, i suoi goffi movimenti nello strenuo tentativo di non venire, di rimandare l’inevitabile, i suoi versetti… fra cui afferrai, sottile, un "fermati!": ma… tardi: troppo tardi!... La mia mano si stava inumidendo, raccolta a coppetta in su la sua cappella punta, a raccoglier quel liquido affinché non traboccasse.
Appena realizzai l'errore, mi fiondai con la bocca per coglierne gli ultimi flutti. Com'era inebriante il suo seme: peccato essersene persi i primi spruzzi, certamente copiosi, nella foga di segarlo, mentre ora potevo solo mendicarne lungo l'asta i resti, come un vecchiardo bavoso.
Mi stavo dilungando a succhiare quel bigolo salaticcio, quando sentii, impertinente, un “allora” esortarmi a finire il ricupero del bottino. Quella cosa mi fece un tal ridere da non riuscire a trattener più in bocca tutto quel liquido e quella gran bega dotata di tutti i centimetri che servivano per soddisfare la mia atavica ingordigia. Sollevai la testa, fissando quella punta inturgidita d’uccello, quando un brilluccichio attirò la mia attenzione sul pavimento…e poi un altro, e un altro ancora: come a formare un unico tragitto fino alla sedia, e poi di continuo, uno striscio, su un lembo della sua camiciola.
– Oh cazzo! – esclamò prendendo quel brandello macchiato – ma che cazzo hai fatto? Ma non potevi stare più attento!?... – continuò con quel sequela di lagnanze sul tono del "te l'avevo detto!" senza darmi possibilità di replica. I suoi occhi si stavan facendo molli di pianto, mentre in soliloquio prospettava chissà quali tragici orizzonti al suo ritorno a casa. Solo una cosa potevo fare: proporgli di pulire la sua camicia, se solo avesse dato udienza alle mie parole.
– ...e che cazzo ci vuoi farci! Me la pulisci tu adesso, eh?– sbottò in un ultimo sfogo piagnucoloso.
– Sì, ci provo io... se adesso la smetta di frignare!
– Non sto piangendo! – mi disse, ma tirando su col nasino.
Luca mi seguì passo a passo in cucina, sul lavandino: come un cagnolino; dove, ora nei panni di un muto assistente, assisteva il chirurgo nell'operazione di ripulitura della sua camiciuola dal suo sperma ragazzino.

Ero riuscito a pulirgli la camicia, ma quell'esisto pezzato, a chiazze mézze e secche, non sembrava incrociare le sue aspettative; né tantomeno servì a togliergli quello sguardo basso che aveva da quando era entrato in cucina. Vederlo così crucciato, nel suo aspetto minutino, con quelle braccina che sembravano appese alla sua canottierina, mi fece una gran tenerezza. La mano scivolò affettuosamente sotto la canottiera, quasi a confortarlo, in cerca del suo smilzo corpicino, ma quando l’incontrai n’ebbi come una sensazione di stordente discrepanza. Un sentire dissonante di diafana corporeità: di solidezza da una parte, per da quella geometria addominale leggermente scolpita nella sua scarna fisicità, e di impermanenza dall’altra, per quella magrezza che allo stesso tempo rilevava: mi sembrava come di toccare un muro che a tratti attraversavo e a tratti respingevo.
– Can Luca, ma quanto sei magro! – mi guardò non capendo. – Ma quanto pesi?
– Boooh….
– Come “boh”?!
– Ma-che-ne-so! – disse seccato, raddoppiando su ogni consonante.
– Che ne sai…? – ero incredulo.
– Non lo so! È tanto che non mi peso... – ma da come parlava, sembrava che nel suo mondo le bilance neanche esistessero; però mi aveva accesa una certa curiosità, e anche una mia vecchia fantasia…
– Ehm... – com'era difficile chiederlo: – ...posso misurarti? – buttai fuori in fretta quelle parole, sperando che neanche l’udisse; e invece le udì.
– Perché? – dalla sua faccia sembrava che gli avessi fatto una proposta indecente.
– Così… per fare, tanto non abbiamo altro da fare… – a parte i compiti.

–Va be’! – rispose, dopo qualche indugio. Non credevo alle mie orecchie: probabilmente lui s’immaginava chissà quali porcherie, ma invece intendevo misurarlo seriamente.
Non me lo feci ripetere due volte: rapidamente lo condussi al bagno del piano superiore, poi l'abbandonai per reperire il necessario per la misurazione: penna, astuccio, taccuino, squadra, metro (da sarta). Non c'era nulla di morboso nelle mie intenzioni, se non soddisfare una mia semplice curiosità, che in realtà avevo sin da quando l’avevo visto la prima volta al mare: quantificarlo fisicamente, scoprirne i segreti di quella sua assurda bellezza, forse racchiudibile nei termini infiniti di una metafisica equazione. Entrai nel bagno, spalancando l'uscio; poi lo richiusi, per creare atmosfera di riservatezza tipica di uno studio: sintomo di serietà. Il primino si era tolto già le scarpe, come ordinato; avanzai a lunghi passi, spingendolo al muro: – Sta fermo qua! – gli dissi. Lui s’impettì, per farsi più alto.
– Quanto sei alto?
– Non lo so... – Ancora! Sembrava non saper nulla di sé, forse neanche di stare al mondo.
– Non lo sai…
– Uff! L'anno scorso ero… – fece uno sforzo di memoria: – uno e cinquanta, credo… più o meno. Insomma, non è che io stia sempre a misurarmi… io! – enfatizzò su quell’ultimo io, quasi a volermi accusare di avere una fissazione tutta mia, che però io non avevo (forse lui aveva dei problemi con la sua di coscienza!).
– Beh, ora lo sapremo. Poggia la testa!
– Ma sei sicuro di…
– Sì! Non vedi che è una squadra: più sicuro di così… ti muro! – mi sarebbe piaciuto farlo più basso di quanto non era, ma una sorta di codice deontologico degli antropometri di primini me lo impediva: – ... e non alzare i talloni! – lo rimproverai. – Fatto! Levati e passami quel metro! –
Marcai nella pittura con la parte metallica del metro la sua statura; poi mi feci aiutare da lui a misurarla dal basso: – Allora, qua… c'è il metro e mezzo!
– Non è possibile... – disse, trovandosi la fine del metro proprio all’altezza dell’occhio.
– Come no! ...è proprio qui, vedi? – mi divertiva girargli il coltello nella piaga. – E da qui al segno sono sei centimetri. Quindi, se la matematica non è cambiata nell’ultimo quarto d’ora, sei uno e cinquantasei… caro mio! – gli picchiettai la mano sulla testa per farlo sentire più basso.
Pareva esserci rimasto male. Forse pensava di essere cresciuto di più nell'ultimo anno, ma a me andava benissimo così; anzi, avevo già visto cert'altri primini ben più alti di lui (e di me), e la cosa non mi piaceva affatto; e poi, diversamente, com’avrei potuto sentirmi ancora padrone della situazione con lui, se già adesso era così difficile per l’ascendente che aveva su di me.
– Su, spogliati! – gli ordinai, segnando l’uno-cinque-sei sul quadernetto.
– Come spogliati! Mi hai già misurato, no?
– Sì, e ora ti peso... dai svestiti! – era per quello che lo avevo portati lì, no? Ma Luca non voleva ubbidirmi: si era tolto soltanto i pantaloni, accasandoli al suolo: – Allora... ti ho detto di svestirti! I vestiti mi alterano il risultato.
– Esagerato! e che vuoi ancora... mi sono svestito!...
– E la canottiera…
– E queste, no? – mi disse provocatoriamente tirandosi l’elastico delle mutande, per farmi vedere che cosa c’era dentro. – Queste non ti alterano il risultato… no! – ma non colsi la provocazione. Quando si rigirò, dopo aver appeso la canottiera, mi mostrò un’evidente erezione.
– Luca… ma sei una cosa vergognosa... – m’uscì schietto.
– Perché?
– ...ma come fai ad avercelo ancora in tiro? – e dopo quello che gli avevo fatto!
– E che ci posso fare... e lo fa! – comoda dare la colpa agli “altri”, per non far la figura del cinno perennemente ingrifato.
– Dai… sali! – gli calciai la bilancia con fare davvero macho.
Luca salì. Il rotore si mosse, ma dal suo breve oscillare si poteva già intuire l’esiguità dell’esito finale. Quando il disco si fermò, non credetti ai miei occhi. – Quarantatré...! Ma… ma come fai a stare in piedi! – gli gridai. Luca, poverino, forse intimorito dal tono della mia voce, mi guardò stranito, così sdrammatizzai: – Praticamente sei un primino tutto bega;... – presi la sua cappella tra le dita: – ... un cinnazzo tutto cazzo!
– Non sono un cinnazzo! – schizzò giù dalla bilancia, che per la foga raggiunse i centoventi chili, mentre la sua voce partiva per i registri acuti dell'età. Adoravo quando gli succedeva, mi faceva troppo ridere. Segnai così anche quel secondo numero sulla pagina, e ritornai da lui col metro in mano: – Ma si può sapere che mi fai?
– Ti sto seviziando... non si vede? Ma che domande... ti sto misurando!
– ...e questo non lo misuri?
– E che me ne fo: so già quant'è! – fu lui a misurarselo (misurando il mio!).
– E che ne sai: magari è cresciuto… – mi fece l’occhiolino. Poverino! si illudeva: sapevo già che non gli sarebbe più cresciuto, ma se anche fosse stato, dato che eravamo ancora uguali, voleva dire che anche il mio era cresciuto, ma siccome non l’era…
– Ma si può sapere che mi misuri a fare? – brontolò dopo un po’, frustrato nel vedermi girargli intorno a misurargli tutto, tranne quello.
– …voglio verificare una cosa... – restai sul vago.
– E su di me! – disse quasi scandalizzato.
– Certo!
– E si può sapere cosa? – Non risposi. – Allora?
– Ehhh!!! – questa volta risposi io seccato.
– Si può sapere che cosa vuoi vedere?
– Uffa! – ma che palle di primino! – Se…ione au… ra... – bofonchiai qualche cosa.
– Eh!?...
– Sezione aurea! – alzai la voce, continuando a misurarlo, – è il concetto di medio ed estremo in proporzione … – gli attaccai la pappardella, letta quest’estate su un libro di storia della matematica (strane letture che facevo…), su quel particolarissimo numero, continuando a enumerarne l’innumerevoli proprietà: della mantissa invariabile al reciproco, pur non essendo l’unico, ma l’unico di certo anche al quadrato; delle potenze che erano «quasi interi» sempre migliori, pur essendo il numero «più razionale»; del suo essere intimamente legato alla serie di Fibonacci, tanto da esserne il limite del rapporto fra due termini successivi; di come si ritrovasse più volte in natura e di come fosse stato riscontrato parecchie volte nell’arte.
– Va be’, va be’, ho capito che ne sai… – l’avevo sfinito – ma perché proprio me?
– Perché… perché sei proporzionato! – era un mio modo cifrato per dirgli che era carino: – ...cioè se c'è, in te dovrei ritrovarla. – e poi chi altro potrei misurare?

Finii di registrare gli ultimi numeri.
– …allora? – mi si avvicinò tentando di leggere sulla pagina.
– Allora che?...
– Allora, questo numero, ce l'ho o no? – alla fine l’avevo appassionato, specialmente da quando gli avevo raccontato che nell’antichità era considerato segno perfezione riscontrarlo nel proprio corpo e che era stato riscontato in capolavori d’indiscutibile bellezza, accendendo il suo lato vanesio raccontandogli.
– Ma che ne so! devo ancora fare i conti..., magari stasera, poi ti faccio sapere!– lo guardai con malizioso: – e adesso...
– E adesso... – ripeté turbato.
– ...e adesso questo! – glielo presi dalle mutande, e poi la squadra.
– E non lo smanetti un pochettino? – mi fece un sorrisino malizioso – Così ti assicuri che è duro al massimo.
Caricai la mano, per dargli illusione che l’avrei smanettato, ma poi… zac! – Ahuuu! – scappellai violento. – Perché?! – mi rimproverò.
– Perché così non fai il furbino! – con la pelle che te lo fa più lungo!
Poi avvicinai la squadra.
– Ma sai come si fa?
– Ma certo che lo so! – glielo strizzai. – Cazzo bello duro parallelo al pavimento:… – e vai un’altra bella stretta: – …a 90° gradi rispetto al corpo; riga in posizione mediale rispetto al piano sagittale… e non sopra! come molti fanno; e base ben contro all’osso pubico! – così stava scritto su internet, e così gli conficcai lo spigolo retto ben dentro la base del pene, vedendo con soddisfazione una smorfietta di dolore sulla sua faccina. – Toh. Guarda! diciannove e tre-quattro! – segnava sul cateto graduate.
– E… – fece per obiettare.
– Sì… e più il mezzo centimetro di guardia, qui all’inizio, fanno: “quasi venti”! – gli incominciai a tirare con soddisfazione forti colpi di sega. Luca si chinò verso di me per cercare appoggio sulla mia spalla. – E pensa che questa non è neanche una misurazione “scientifica”… – gli sibilai all’orecchio – …: perché per fartela dovrei minimo misurartelo quattro o cinque volte, e toglierci la più lunga e la più corta, e farci la media; e magari ripeterlo per due o tre volte… – e gli sarebbe certamente piaciuto farselo misurare ripetutamente: sbattermelo più volte sotto la ghigna, farmelo manipolate continuamente, e farsi ripetere ogni volta quanto ce l’aveva lungo… ma si scazzava se credeva che ci sarei ricascato nuovamente nel tunnel della misurazione compulsiva per lui (dopo che c’ero uscito l’anno scorso!).
Prima che mi rivenisse in mano gli mollai la bega: – Su, rivestiti! – Poi ripresi la mia roba per sbrigarmi a liberare prima che arrivassero i miei, ma con la coda dell’occhio lo vidi in piedi davanti alla tazza del gabinetto intento a mingere.
– Ma come fai?!
– Che cosa... ad avercelo ancora duro?
– No, a farla così davanti a me… io non ci riuscirei mai. Mi blocco anche solo ad immaginarmi uno alla spalle.
– Boh, io non ho problemi. Cioè, con un altro avrei problemi, ma con te no, anche perché in fondo ci siamo già visti. – chissà… ma io non gli credevo. Poi riattaccò: – Ah, ma tu come lo chiami?
– Chi?
– Lui... – lo scodinzolò.
– Ma perché il tuo ha un nome?
– Certo, Gianluca!... Guarda: Gianluca, saluta! – l’oscillò nuovamente quel bigolo sinuoso.
– E gli altri due chi sono? Pierluca e Leoluca, così facciamo la triade dei Luca…
– Buon'idea, sai? non ci avevo ancora pensato! – non capivo se mi stesse prendendo in giro o fosse veramente così infantile. – Su, rivestiti che torniamo prima che tornino i miei!

Dovevo soltanto raggiungere Luca al piano di sotto, quando all'angolo delle scale…
– Luca, che ci fai in canottiera? È tua quella...? – mia madre... no! E per di più con fare inquisitorio.
– È… è sporca... – balbettò.
– Di resina... – aggiunsi io, comparendo dalle scale. – ...dev’essersi sporcata a scuola! Ho provato a pulirla… stavo cercando del sapone...
– Resina...? – fece mia madre con faccia dubitativa: – ma il sapone non basta! – attimo di pausa – ... ci vuole la lavatrice… e poi e poi. Dammi, ci provo io! – gli rubò la camicia dalle mani, scomparendo verso il garage.
– Ma sei scemo? – corsi da lui, sgridandolo sottovoce: – Le hai dato la camicia sporca di sperma!
– Eh... eh... l’ha presa... – mi fece come per dirmi "ma cosa ci posso fare": – ...almeno la pulisce... – aggiunse poi con supremo candore. In quel momento non sapevo se adorarlo o strozzarlo: scelsi la prima, ma per stemperare la tensione lo presi con una mano dietro la nuca e una sulla bocca, fingendo una giocosa aggressione; ma: – ALLE! Allora: t’ho detto non fare il manesco! – Ahhhhh, avrei voluto gridare!
– Ma non sto facendo niente! Stavamo scherzando... vero? –, annuì.
– Piuttosto… dagli una tua felpa che non è stagione questa per stare in canottiera... – ancora con tono da rimprovero; ma poi guardò lui: – Luca, non ti preoccupare è venuta pulita... non era resina... – tutta dolce e smielata. Meglio portarlo via: o uccidevo qualcuno!

***


– Luca, tienilo bene! non è mica un gatto di pezza: non si rovina! – si vedeva che non aveva un gatto.
– E come?
– Dammi! – glielo prelevai dalle braccia: – Così: con due le braccia e le zampe sotto, vedi? Insomma, devi fargli capite chi comanda! Vero, Niki? Io uomo, tu gatto... Dai, siediti che te lo ripasso.
Povero Niki, sballottato così come un bambolotto dall’uno all’altro; speravo solo che non si stancasse, anche se sembrava non dispiacergli affatto, in fondo a lui bastavano di solito due crocche e due coccole, e tutto andava a posto.
Mia madre ci passò alle spalle: – Alle, sta’ attento che non lo graffi: lo sai com'è quando gli gira... – E che cavolo! Va be’ che era ospite (e che l'ospite è sacro), ma non è mica uno Swarovski!
– Non ti preoccupare, lo conosce… lo conosce…
Intanto Luca ci aveva preso confidenza, e tutto soddisfatto se lo abbracciava, come un bimbo col suo micio in braccio.
Arrivò perfino a fargli le fusa, quel felino ruffiano: stava davvero esagerando! Non so perché, ma c'era qualcosa che mi infastidiva in quel quadretto idilliaco, così decisi di far fare miao al gatto... – Ma dai! Poverinoooo! –, mi scacciò via la mano dalla coda.
– Poverino, chi! Ma di chi è il gatto? – gli conficcai la mia mano fra le gambe. – Schiacciamo la codina qui? – iniziai a cercarglielo. Luca si buttò in avanti per trattenere il gatto; poi tornò in posizione, lasciandomi raggiungere il mio bersaglio. Stava lì come se nulla fosse: come se la mia mano neanche fosse tra le sue gambe a stringergli il cazzo. Finalmente lasciò il gatto.
– Dov'è il topolino? – gli dissi – Te l'ha mangiato il gatto! – Ma Luca restò, mentre la mia mano gli ravanava sotto la felpa a pizzicarli la cappella. Pian piano ripresi anch’io la posizione precedente, fingendo di guardare la tivù, mentre mia madre stava di là in cucina e sotto il suo naso si consumava la nostra silenziosa trasgressione. Che soddisfazione farlo sotto il naso dei genitori e in barba alla loro puerili convinzioni.

Prima di cena, Luca volle assolutamente rimettersi la camicia, finalmente asciutta e ripulita dai suoi fluidi biologici. Non so perché ci tenesse tanto, credo volesse solo presentarsi a tavola bello come il bijou che mamma l'aveva preparato; ma il problema non fu che si cambiasse, ma dove lo fece: in salotto, e davanti ai occhi miei e soprattutto di mia madre. Maldestramente fece pire adocchiare un lembo di mutanda: ma non di quella innocua e piatta, che fissa solo l'indumento e non dà segno di pudenda, ma di quella colma e rigonfia, che non lasciava tanto spazio all’immaginazione per capirne la sostanza. Cosa che ai miei occhi allenati non sfuggì, ma che a mia madre, per fortuna, sembrò notare di lui soltanto l’estrema magrezza: – Ma Luca… ma mangi? – disse con tono apprensivo. (“No mamma, lui mangia soltanto bega!” avrei voluto dirle: ma certe cose un figlio non può dirle, né pensarle…)
Ma presto le sue apprensioni genitoriali vennero sconfessate, vedendolo mangiare: nessuno, infatti, a vederlo, avrebbe mai potuto dire che un sì esile figurino potesse ripulire con così tanta voracità il piatto che mia madre a più tornate gli riempiva con la stessa soddisfazione di un genitore che reimpiatta vedendo la prole mangiare di sano appetito. Mi faceva ridere vedere quella scena di rimpetto, anche se neppure io potevo fare a meno di chiedermi tutto quel cibo in quale worm-hole nel suo stomaco finisse. E intanto mio padre tesseva la sua tela ragna di domande volta bonariamente a inviluppare l'ospite ignaro in una di quelle conversazioni che non finivano mai, neanche dopo cena, nemmeno dopo la mezzanotte, neppure dopo l’alba, fosse per lui. Giunse il dolce – evento raro in casa mia, se non il sabato e le feste comandate –, e Luca intanto si era fatto intrappolare da mio padre; ogni tanto lo vedevo lanciarmi occhiate disperate, e mi sarebbe anche piaciuto lasciarlo lì, dopo che lo avevo avvertito, ma sarebbe stato troppo anche per il peggior nemico... e poi non potevo lasciare che i miei avessero con lui un dialogo più profondo che con me: non giova alla mia immagine, specialmente se rischiavo di risultare peggiore ad un confronto come ipotetico figlio.
– Luca, io vado a cercare quelle cose per il tuo amico... ehm, Gianluca... appena puoi, vieni! – gli lanciai un’ancora di salvezza. Però, era bello avere un gergo tutto nostro anche per poter chiedere del sesso impunemente davanti ai nostri; ma conveniva usarlo con prudenza, per non insospettire, e non sciupare quel patrimonio linguistico in fondo di facile decifrazione, se abusato.

Levai il mappamondo per far posto a Luca sulla seggiola accanto alla mia, quando sarebbe arrivato. Nell’attesa avrei confrontato i dati con delle statistiche che tempo prima avevo trovate sullo sviluppo dei ragazzi, per far dei confronti sulla mia condizione fisica.
Luca entrò. – Chiudi la porta! – gli dissi, facendo cenno di girare la chiave nella toppa.
– Allora...? – mi disse, sedendosi a sua volta.
– Allora che... ho cercato qualcosa su di te per le cose di oggi – intanto Luca, senza chiedermi niente, si era già intrufolato nella mia mutande, impossessandosi del mio pene, come se niente fosse.
– ...e dunque? – iniziò a masturbarmi.
– Beh! Intanto, ho scoperto che per la tua età sei alto come una ragazza! – lo picchierellai di nuovo sulla testa.
– Ihhh! – mi fece un risolino antipatico, mostrandomi tutta l’arcata superiore dei denti, bianchissimi: – sei veramente simpa, sai?
– …e comunque sei magro, vedi?
Luca guardò sullo schermo: – Io non vedo niente: vedo soltanto delle stupide linee! – disse, continuando il suo smanettamento.
– È perché non le sai leggere: questa linea vuol dire che solo un quarto dei ragazzi, della tua età, è più magro di te... –, era davvero difficile coniugare le frasi con quella mano che mi stringeva; intanto il volto di quel fascinoso biondino mi stava attraendo, e a ogni parola mi ritrovavo sempre più vicino a lui, fino a toccarlo: fronte a fronte. Era fantastico quel tête–à–tête, e perdermi nella meraviglia castana delle sue iridi profonde, dove per un attimo mi parve di intravederlo nella sua anima più nascosta. Sarei restato per ore lì con lui a non far altro, ipnotizzato dal tepore del contatto con la sua fonte; ma lui ruppe l'idillio staccandosi per guardare l'orologio. Sembrava più interessato all'ora che si faceva che al mio sentimento, come se fossi soltanto un impegno da sbrigare, al più presto: – E' tardi, tra un po' devo andare!
– Non ti preoccupare... – gli dissi, recuperando con forza il contatto con la fronte: – se vuoi ti riaccompagno io, così i tuoi non si arrabbiano... – volevo coccolarmi ancora un po’ con lui.
– Non c'è bisogno... – sorrise – in realtà, gli ho già detto che mi avresti accompagnato… Ma non serve… tanto avevo già intenzione di tornare da solo – fede spallucce. – Insomma, ho quattordici anni… non sono mica un bambino! Comunque, grazie! Gli dirò che sei andato via subito, tanto di me si fidano – e sull'ultima frase si abbassò sul mio pene.
Il suo discorso continuava a rimbalzarmi per la testa per il suo evidente non-sense: prima aveva fatto di tutto per presentarsi a tavola come la mamma l'aveva preparato, e ora non si faceva problemi a disubbidirle, e per di più in una cosa tanto pericolosa. Ma certo... lui aveva quattordici anni…, mica un poppante! Era un uomo fatto e finito …anche se magari era la prima volta che usciva da solo di sera, ma lui sapeva già come girava il mondo... lui! Una cosa però la sapeva davvero fare…: quel pompino era divino! Involontariamente, con la testa, mi aveva alzato la canottiera, e ora sentivo la sua morbida chioma accarezzarmi contro la pancia. Un solletichio che si faceva sempre più invadente: ora come un dolorino che dalla base del pene s’irradiava per tutta la pancia; era come se avessi riso mille grosse risa, e ora tutti gli addominali mi facessero male. Mi chinai su di lui: non respiravo più, quella sensazione era irreprimibile. Mi sentivo la sua nuca incastonata nel grembo; come un chakra potentissimo e invadente che non riuscivo più a trattenere: avrei voluto urlare il suo nome dal piacere, solo che non potevo. Mi allungai sulla sua schiena, fino a toccarne i glutei con le mani, quando finalmente, come una forza liberatrice, pronunciai il suo nome sentendomi arrivare. La sedia tremò per il mio fremito coitale, mentre mi abbandonavo disteso sulla sua schiena: spossato come se gli avessi partorito in gola il frutto di me stesso e di tutto il suo impegno.
Ero spossato, disteso su quella schiena, quando Luca fece per rialzarsi, cercando di vincere la mia inerzia. Allentai quel poco che serviva per fargli vincere la mia resistenza, poi, quando mi chiese cos'avessi d'agitarmi tanto, mi buttai ad abbracciarlo. – Mamma mia, ma cos'hai? – Non sapevo come descrivergli la sensazione che mi aveva appena regalato. A dire il vero all'inizio, per ringraziarlo, ero quasi tentato di buttarmi sulle sue labbra, ma poi per pudore preferii abbracciarlo, e struscicarmi contro la sua nuca.
Dopo un quarto d’ora che l’abbracciavo, Luca mi ridisse: – Devo andare... –, disvincolandosi dalle mie braccia. Lo raggiunsi a metà via dalla porta, bloccandolo per le spalle e accompagnandolo, complice la sua passiva resistenza, a distendersi sul mio letto: – Ma dove vuoi andare...? – gli dissi, abbassando la sua cerniera e infilandoci dentro la mano. Che tesoro... ce l'aveva già duro!
– Ma se arrivano...
– …è chiusa!
La sua bega pulsava già mezza fuori dalle mutande; dovevo solo emergerla da quella fessura, come un pennone maestoso dal mare nero dei suoi pantaloni.
– Ma è tardi... – replicava con finta voglia di andarsene.
– Sai una cosa? Ho voglia di un pomeriggio tutt’intero con noi due soli..., la prossima domenica che i miei vanno, ti chiamo... capito? – dissi, accarezzando quella belva ancora vogliosa di spruzzare da tutte le parti. Scappellai, e poi scesi a infilar la lingua in quella fessa, alla base del pene: come a far un immenso cunnilingus tra quelle due labbra grandi che tenevo aperte con ambe mani. I peli m’infastidivano la punta della lingua. E poi, sù… per quell'enorme clitoride, che però clitoride non era! e fino alla cappella. Preso dall'eccitazione, Luca cominciò a vociare. – Ma sei scemo! – gli gridai: – Così è certo che ci sentono! –, e poi ripresi in bocca quell'umido glande. Mi piaceva davvero troppo: la mia voglia di bega non si era ancora saziata con la razione di quel pomeriggio; e ora speravo ancora che ne serbasse ancora un po', nonostante l’abbondante venuta, come preziosa riserva d'annata. La voglia crebbe: non mi limitai più soltanto alla cappella, me ne infilai in bocca il più possibile; che cosa stupenda, chissà se anche lui provava quella sensazione magnifica, di possente vigoria, quando succhiava me? Avrei continuato a lungo, ma stava già venendo. Voleva fare in fretta; e in fretta c'era riuscito.

Finito, fissai quel pene molle, lungo e disteso sul suo pantalone nero, e mi venne ancora vergogna per quello che avevo appena fatto, soprattutto perché ancora avrei avuto voglia di sentire la sua tumescenza tra le labbra per risentirne il tepore. Incominciai a cercarmi intorno qualche motivo di distrazione, mentre lui si rimetteva ben tutto dentro ai pantaloni. Improvvisamente la mia attenzione si focalizzo su delle scatole di metallo che fungano da portaoggetti su d’un ripiano della mia libreria, e fu allora che mi venne in mente che sarebbe stato il miglior stratagemma per nascondere per nascondere il rumore della chiave nella toppa: – Luca, – gli dissi, mentre finiva chi chiudersi la patta, – vai là e al mio tre butta giù quelle scatole!
Uno, due, tre… il fracasso coprì egregiamente il rumore della chiave, almeno dall’interno; aprii velocemente per vedere se ci fosse qualcheduno nel corridoio, soprattutto mia madre: ma non c’era nessuno. Fa niente, comunque sarebbe un modo utile per nascondere il rumore nelle prossime volte.

***


– Luca, allora vai? – chiese mia madre, vedendolo vestirsi.
– Sì, vado... e grazie per la cena!
– Figurati, e la prossima volta vedi cosa ti preparo! Ma vai da solo?
– Sì, con mia mamma sono d'accordo così... – poi sparì velocemente verso il garage; mentre mia madre mi si avvicinò con aria poco convinta.
– Vieni qua! – conoscevo quel tono: – Ma va via da solo?
– Sì. L'hai sentito, no? È d'accordo così! Che c'è? – la sua faccia si fece seria.
– C'è che lui sarà anche sveglio; ma, vigliacca la madonna, se voi maschi non siete sempre complici quando c’è da combinarne una! – il prologo già non mi piaceva – È inutile che fai quella faccia... sono tua madre, non una cretina! Lui ha due anni in meno di te, e secondo te io mi bevo che i suoi lo lascino tornare da solo …a quest'ora!
– Ma…
– Alle, lui è minorenne! E quando viene qua… e fino a quando non torna a casa, la responsabilità è nostra: se non legale, almeno morale...
– Ma ha…
– Non m'interessa... tu ora lo riaccompagni! Vi siete attardati in camera tua a giocare, e ora lo riaccompagni! O vai anche tu, o lui non esce di qua finché non lo sento da sua madre, anche a costo di tenerlo qua a dormire! O preferisci che telefoni ai suoi? – in fondo era lui che rischiava, ma sarei stato una carogna a non impedirlo.
– Uff! Dai, lo riaccompagno! –; Luca mi doveva un altro favore, a sua insaputa.
– Su, che non è poi questo gran sacrificio... – mi mise una mano sulla schiena, mentre andavo a chiamarlo: – gli amici van coltivati!

***


– Entra un attimo! – mi disse, davanti a cancello di casa sua. Ma io in realtà sarei dovuto tornare a casa subito: o almeno così avevo promesso… vabbè: colpa sua! era lei a dirmi sempre che non si rifiuta mai una gentilezza.
Certo che quella di Luca era una vera magione: perché non ne capivo le dimensioni, forse per il buio. Doveva essere almeno una bifamigliare, almeno stando alle due falde del tetto che partivano proprio dal vertice sopra le nostre teste, di cui una finiva oltre l’alta siepe alla nostra sinistra, che tra l’altro nascondeva buona parte dalla facciata. Sotto il portico, Luca aprì l’uscio e subito fummo investiti da un fascio di luce proveniente dal suo ingresso; appena si tolse il casco, sopraggiunse sua madre a farci gli onori di casa: – Ciao Alle, allora s'è comportato bene? – mi disse mentre Luca arrossiva: – Dai mamma!
– No... tutto a posto! – mi sentivo in imbarazzo a doverle rispondere: – ...però io adesso dovrei andare...
– No! aspett... – mi fermò, – Stai qui! Per piacere, non andare... eh! – l'accontentai. Chissà cos'aveva da non poter aspettare domattina? Intanto, incominciai a studiarmi l’interno di casa, notando subito come l’arredo fosse d’una foggia di certo superiore a quella di casa mia; poi vidi una foto su un mobiletto: un ritratto familiare. Era Luca, e quella foto era stupenda: il suo primo piano di profilo in lieve penombra, con il vento che scompigliava lentamente i capelli, e sullo sfondo l’inconfondibile paesaggio delle piramidi di Giza, arrossate dal tramonto.
Finalmente sentii Luca tornare, e dall'angolo comparve una mia vecchia conoscenza: – Ohhh, Alessandro... – non sopportavo di essere chiamato col mio nome per intero – ...come stai?
– Bene, grazie.... tutto bene...
– Allora… com'è stato ritrovarvi a scuola? – disse, accarezzando il nipote:
– Beh, insomma, non me l'aspettavo... – non potevo di certo dirgli che m’era preso il panico non appena l’avevo visto. – Però, ora devo andare...
– Certo... tanto vi vedete domattina – diede un'altra carezza a Luca; un po' l’invidiavo: io non avevo nonni, e mi sarebbe piaciuto averci lo stesso rapporto che ci aveva lui. – Ascoltami, – aggiunse improvvisamente: – di' pure a tuo padre che è tutto a posto – non capivo: – Lui sa di che si tratta...
– Allora… riferirò!
Luca mi prese sotto braccio, facendo per riaccompagnarmi, ma prima ributtai l’occhio su quella stupenda foto per fissarmela nella mente.
– Bella, vero? È di quest’estate in Egitto, ricordi? – sì, ricordavo che ma l’aveva detto: mica male come regalo per la promozione!
– Bella davvero! – soprattutto perché c’era lui: – ma chi l’ha fatta?
– È lei la fotografa! – poi aggiunse: – Ho un'idea: perché non vieni una sera a vederle? Ne ho un DVD pieno! ...può? – si rivolse alla madre.
– Certo che può! Quando vuole...
– Allora vieni? – mi richiese: – Anzi, perché non vieni domani... È sabato!
– Luca… – ero un po’ impacciato: – verrò a vederle, – gli s'illuminarono gli occhi: – ma domani sono impegnato: esco coi miei amici...
– Ah! – aggiunse, con non poca delusione.
– Luca anche te... ognuno ha i suoi impegni, eh!... – gli disse la madre, forse intuendo che stava correndo un po’ troppo nell'affezionarsi a quell'amico più grande che, nel bene o nel male, aveva un mondo ancora distante dal suo.
Mi rimase in mente la faccina mortificata di Luca; mi sentivo un idiota: non avrei dovuto usare così male le parole: dire "amici" in un modo così esclusivo, quasi che anche lui non lo fosse, quando invece, per quanto ne sapevo, mi trovavo meglio con lui, che non con gli altri. M'ero stancato dei soliti sabati sera passati al pub: mai una ragazza; sempre le solite quattro cazzate, e poi a casa di uno a vedere l'ultima cazzosa americanata, solo per tirar tardi... tutte cose che per una sera avrei volentieri evitato; anzi, mi sa proprio che una sera di quelle li avrei volentieri mandati a fanculo, per stare con Luca.

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