Quel giorno proprio avrei dovuto dire di non venire a Luca: visto che
ormai i nostri incontri pomeridiani erano scanditi, per tacito accordo,
due volte la settimana, martedì e venerdì; ma oggi proprio non era
giornata. Un di quei giorni che nascono storti fin dal mattino: questa
era l’idea che avevo e che perdurò per tutto il mattino, anche nel
ritorno con sua madre. Volevo solo starmene da solo coi miei pensieri,
non vedere nessuno, nemmeno lui, perché scontavo già che avremmo finito
per litigare: mi conoscevo troppo. Ma non ce la feci a dirglielo, per
non sentirmi subissare di domande, e nella speranza che nel frattempo il
nervoso mi sarebbe passato.
Luca entrò, come sempre, col suo solito
sbatter d’uscio. Conoscevo ormai a memoria il suo rumori, e sarebbe
anche stato divertente indovinarne i movimenti, se non fossi stato in
quella condizione: il cigolare della penultima porta alla sue spalle; i
suoi passi su per gli undici gradini che serpano dal piano nobile; la
cerniera della sua giacca, messa poi a cavallo della sedia; la sacca dei
sui libri, poggiata vicino alla mia sedia; e chissà cos’avrebbe detto
ora: io non c’ero… o almeno c’ero, ma coperto dallo schienale del
divano. La sua faccia… avrei voluto vederla!
– Alle… ci sei? – disse
spaesato, come una particellina di sodio solitaria in una bottiglia
d’acqua. Passò qualche secondo, e ancora: – Alleee ci sei… sei su?
– No, sono qua! – risposi bruscamente, per render palese la mia arrabbiatura.
– Perché sei lì? – chiese come un bambinetto. Non mi alzai neanche per salutarlo.
– Oggi non ho compiti, tu siediti e fai i tuoi!
– Beh, non mi dai una mano…
– Una mano per cosa? Sappiamo benissimo che non ne hai bisogno! Siediti, e fatteli!
– Va bene… – rispose, con il tono di chi intuisce tempesta sentendo i tuoni di lontano.
Passarono
una quarantina di minuti di surreale silenzio: io sul divano, eletto a
dimora, e Luca in castigo a scrivicchiare sui suoi compiti; il più lungo
silenzio tra noi due chiusi nella stessa stanza.
– Alle, vado in
bagno… – annunciò, come un galeotto che avvisa il suo carceriere. Fino a
quel momento non m’ero ancora accorto di quanto gradissi quel
primigenio silenzio, soprattutto privo di voci umane a ricordarmi la
presenza di altre persone nella stanza.
– E vai, no! – gli replicai
infastidito – Cos’hai bisogno di me pure per quello? Ti serve qualcuno
che ti venga a pulire! – probabilmente se n’era già andato prima della
fine della frase. Ero stato forse troppo duro con lui, che non c’entrava
nulla; ma essere cattivo con lui in quel momento mi faceva sentir
meglio: come se condividessi il mio peso.
Luca si affacciò dallo
schienale come marmotta timida, come a chiedermi permesso per poter
venire in avanti, poi si sedette in quel poco spazio che avevo lasciato
ai miei piedi.
– Posso? – chiese, mostrandomi il telecomando Accennai di sì.
Stava
immobile a fissare la tivvù, seduto sul bordo del divano, come in
prestito, e ogni tanto guardava me; poi mi girai supino e vidi che
guardava più il mio pacco che me. A un certo punto fece come per
allungare la mano.
– Oggi, non ne ho voglia! – lo seccai lapidario.
Dopo un minuto, Luca si alzò e venne da me a chiedermi: – Posso stendermi?
– Fai…
– Mi fai spazio?
– Su, mettiti… – l’esortai nuovamente, senza muovermi.
– Va be’, ho capito! – rispose scocciato, facendo per andarsene.
– No! Scusami… – lo fermai per un polso: – …non andartene, ti prego… stenditi!
– E fammi posto!
– No… qua! – gl’indicai: –… su di me! –, battendomi sopra il petto.
Luca
allora si dispose a quattro zampe su di me, a un paio di spanne, un po’
indeciso su come affrontare quella novità. Era bello vederlo così,
sembrava un angelo venuto per placare il mio animo; biondo, come una
luce venuta a rischiare le mie tenebre, e dolce, come il suo carico su
di me, che non mi pesava affatto, ma che anzi sembrava togliere gravità
al mio peso. Mi sentivo meglio, anche se non avevo voglia di
dimostrarglielo con qualche gesto d’affetto, come invece lui stava
facendo, profondendosi in continui strofinamenti contro il mio petto e
contro il mio resto.
– Luca, te ne stai fermo?
– Eh…sono scomodo: sono i pantaloni. Posso toglierli?
– Sì… – mi aveva colto alla sprovvista: – …ma poi non hai freddo? – riuscii a opporgli soltanto quello.
–
Mi metto quella! – disse, indicando la coperta di Niki piegata su una
sedia: quella che usavo per avvolgerlo ogni sera: mentre di giorno
gliene combinavo di tutti i colori, la sera mi piaceva straviziavo come
un bambino.
Goffamente si alzò, mettendosi nuovamente a quattro
zampe. Ora, era come se per me il suo corpo fosse il cielo della stanza,
sorretto da quei quattro pilastri che erano i suoi arti; poi si rimise
in piedi, mostrandomi la sua patta rigonfia. Senza tanti preamboli si
slacciò i pantaloni, che immediatamente calarono a terra come attratti
da una forza spogliatrice. Non appena intravidi il suo pacchetto,
allungai la mano per saggiarne la saputa consistenza. Luca s’irrigidì, e
mentre prima gli palpavo le gonadi polpose, ora m’intrufolai sotto la
mutanda per sentirne la delicata morbidezza. All’istante impazzii,
esaltato da quella pelle morbida e vellutata. Lui eccitato – tutto
riassunto nel suo sorrisetto malizioso – pensava di avermi riacceso
finalmente la fiamma, ma ancora non mi andava di far qualcosa con lui.
– Lasciamo perdere… oggi non è giornata…! – lo licenziai con quella cocente delusione, ritirando via la mano.
Senz’alcuna
disillusione, Luca si andò alla sedia, spiegò il panno per la sua
intera lunghezza, portandoselo sulle spalle, e poi corse da me
allargando le braccia e facendo il giro del divano, come un perfetto
Batman goliardico: solo in mutande e senza calzamaglia. Rigiunto da me,
sempre in silenzio, voltò la coperta per il lungo, sino ai piedi, e mi
si rimise sovra a gattoni, prima di ridiscendere, solo che ora mi
facevano una certa arrapatura le sue coscette smilze viste nel buio
della coperta.
Non sapevo come reagire: Luca aveva su di me un
effetto disarmante, ma anche terapeutico sul mio ego. La sua calma mi
infondeva una voglia di somiglianza, di essere come lui; ma tutto quel
che potevo era solo abbracciarlo più forte al mio petto sperando che
qualcosa di lui confluisse in me.
– Ma perché mi stringi così tanto?– mi chiese dopo qualche minuto.
– È che sono stressato…
– Ah, dunque mi usi come antistress?
– Oh… ho provato con il gatto, ma con te c’è più soddisfazione, anche se sei mingherlino!
– Perché sarai grosso tu!... – replicò.
– Non intendo questo, però sei più piccolo di me.
– Uffa, la smetti con questa storia…
–
Ma perché te la prendi… non è mica un difetto, anzi… – era quello che
me lo faceva adorare così tanto: a rendermelo così tanto carino, e a
farmelo sentire così tanto bisognoso di coccole. Io lo ammiravo: si era
mostrato così comprensivo con me, che io non avrei saputo fare
altrettanto a ruoli invertiti: avrei già inveito, imprecato, persino
ingiuriato; ma lui no…
Si era appoggiato nuovamente su di me, come ad
auscultare il mio cuore, e con le mani batteva il ritmo, ridacchiando: –
Che hai da ridere?
– Tu-tuc… Tu-tuc... – mi fece. – Alle, ma perché sei arrabbiato? – sapevo che prima o poi sarebbe arrivata…
– Niente… ho litigato con i miei…
– Perché? – sussurrò discretamente.
–
Luca, son cose personali…– e portai una mano, per rassicurarlo, sulla
sua chioma. Non volevo addentrarmi nei dettagli, temevo che non avrebbe
capito l’importanza del mio problema.
Dopo quel discorsetto, lo vidi
alzarsi con la coperta dal sedere, mentre con tutto il resto restò
aderente a me, e le sue mani scivolarono lungo i fianchi; tentai di
fermarlo, ma: –Aspetta un attimo! – mi disse, entrando nelle mie
mutande. Era un ordine a cui non potevo disubbidire.
Cominciò a
muovermi rinfusamente tutta la matassa, di palle e bega assieme, per
farmelo indurire. Poi continuò a menarmelo, con il polso a rovescio,
sino a farmelo imbarzottire, mentre tutto il suo peso si concentrava in
un unico punto del mio sterno, ma era per me un ancor più dolce
fardello. Continuava e continuava ma non riusciva ad ottenere l’erezione
sperata; non riuscivo: ero eccitato, ma non fino a quel punto.
Poi
si girò con la testa, guardandomi in faccia. Io mi sforzai di guardarlo,
di metterlo a fuoco, ma anche qui non riuscivo: vedevo solo una doppia
attaccatura bionda e quattr’archi sopraciliari.
– Allora… va un po’ meglio? – mi disse goffamente, impuntando il mento nel mio petto.
– Luca… non è giornata!
–
Ho capito… – disse come un piccolo adulto: – so io cosa fare! – e dopo
quelle parole, scomparve sotto la coperta, nascondendosi completamente a
me. Si raggomitolò sulle mie gambe, e cominciai subito a sentirlo
bacettarmi su tutto il cazzo: dalle palle fin alla punta; giunto alla
quale, scoprì e iniziò a succhiare. Eccolo il suo rimedio portentoso,
questa volta proprio non capivo se lo facesse per me o per sé; era come
al solito carnale e intriso di passione viscerale, ma pur godendo m
mancava qualcosa capace di lasciarmi andare. Mi sentivo asettico, non
riuscivo ad eccitarmi, e dopo qualche minuto iniziò pure a darmi noia:
non lui, ma la mia incapacità di abbandonarmi. Sentivo ancora un turpe
malessere, un sentimento misto nell’animo, afasico e indescrivibile: né
rabbia, né noia, né stizza o dolore, ma tedio, un pungolo interiore, ora
acuito anche dal suo inane suziare, che non riusciva a darmi il
sollievo sperato, ma neanche a farmi montare a rabbia con lui. Dopo
un’interminabile decina di minuti, Luca stufo e probabilmente stanco di
non sentirmi neppure guaire per il suo immane sforzo abbandonò i miei
molli resti dalla sua bocca, come tristi rovine al loro destino.
Risalito inglorioso, piano sotto la coperta, ricomparve con il suo
biondo volto: – Sei un osso duro…– mi disse, guardandomi divertito, per
poi risistemarsi sul mio petto, come se stesse dormendo.
Non so
perché, ma il suo buffo riapparire m’infuse buonumore, strappandomi
anche un cenno di sorriso, che non mancai di comunicargli stringendolo
più forte. Era veramente bello sentirmelo sopra di me, poggiato sul mio
petto: sognavo da tempo di passare così un pomeriggio con lui, senza
però quel tedio ad assillarmi.
Passò del tempo, e noi due fermi
in quella stessa posizione, ogni tanto con qualche commento a
interrompere il nostro silenzio o con lui che giocosamente mi litigava
il telecomando, senza però mai separare l’orecchio dal mio petto.
– Luca, su alzati che è ora…
Sbuffando
si rialzò, strusciandosi contro di me e avviluppandosi nelle coperte,
come se non volesse ora mostrarsi seminudo a me. Tutto avvolto nella
coperta, sembrava un cannoncino pronto per essere svuotato dalla sua
deliziosa cremina, che lui rappresentava. Mi abbassai per raccogliergli i
pantaloni (una gentilezza per tutta la pazienza mostrata), ma appena
afferrai la cintura mi venne in mente di chiedergli come stesse
Gianluca, e lui aprì la coperta: – Bene, direi! –, mostrandomi la sua
cappella bell’e che fuori dagli slip.
A quel suo fare così naturale e
alla visione di quell’organo mi eccitai follemente, sentii subito la
libido scorrermi nelle vene come un fluido fortificatore, dandomi
vigorìa anche laddove prima faticavo solo ad avere un’erezione. Ci
passai la mano, e lui subito se ne accorse, uscendo dal suo bozzolo per
saltarmi addosso. Mentre Luca mi avanzava, io mi declinavo; mentre lui
m’abbassava la tuta, io mi eccitavo; mentre mi succhiava, godevo:
finalmente godevo! Non potevo altro, impotente, che stringere quella
costa di cintura; ora, era tutto diverso, come illuminato da una luce
nuova. Ogni sua slinguazzata, ogni suo su e giù, era un orgasmo potente e
liberatore; era come se tutta la carica orgiastica accumulata prima
stesse ora prorompendo nella sua gola, e fu così dopo pochi minuti:
quando regalai la miglior parte di me dentro di lui, che al solito non
rifiutò.
Venni appena in tempo, prima di sentir transitare l’auto di
mia madre per il vialetto di casa. Gli lanciai i pantaloni, che –
finalmente soddisfatto di aver battuto l“osso duro” – calzò veloce come
un fulmine; e quando mia madre entrò, l’incrociò solo l’attimo di un
saluto: l’ideale per mantenere le distanze fra loro e la mia vita
segreta con lui.
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