25 agosto 2019

Giornanta nera

Quel giorno proprio avrei dovuto dire di non venire a Luca: visto che ormai i nostri incontri pomeridiani erano scanditi, per tacito accordo, due volte la settimana, martedì e venerdì; ma oggi proprio non era giornata. Un di quei giorni che nascono storti fin dal mattino: questa era l’idea che avevo e che perdurò per tutto il mattino, anche nel ritorno con sua madre. Volevo solo starmene da solo coi miei pensieri, non vedere nessuno, nemmeno lui, perché scontavo già che avremmo finito per litigare: mi conoscevo troppo. Ma non ce la feci a dirglielo, per non sentirmi subissare di domande, e nella speranza che nel frattempo il nervoso mi sarebbe passato.

Luca entrò, come sempre, col suo solito sbatter d’uscio. Conoscevo ormai a memoria il suo rumori, e sarebbe anche stato divertente indovinarne i movimenti, se non fossi stato in quella condizione: il cigolare della penultima porta alla sue spalle; i suoi passi su per gli undici gradini che serpano dal piano nobile; la cerniera della sua giacca, messa poi a cavallo della sedia; la sacca dei sui libri, poggiata vicino alla mia sedia; e chissà cos’avrebbe detto ora: io non c’ero… o almeno c’ero, ma coperto dallo schienale del divano. La sua faccia… avrei voluto vederla!
– Alle… ci sei? – disse spaesato, come una particellina di sodio solitaria in una bottiglia d’acqua. Passò qualche secondo, e ancora: – Alleee ci sei… sei su?
– No, sono qua! – risposi bruscamente, per render palese la mia arrabbiatura.
– Perché sei lì? – chiese come un bambinetto. Non mi alzai neanche per salutarlo.
– Oggi non ho compiti, tu siediti e fai i tuoi!
– Beh, non mi dai una mano…
– Una mano per cosa? Sappiamo benissimo che non ne hai bisogno! Siediti, e fatteli!
– Va bene… – rispose, con il tono di chi intuisce tempesta sentendo i tuoni di lontano.
Passarono una quarantina di minuti di surreale silenzio: io sul divano, eletto a dimora, e Luca in castigo a scrivicchiare sui suoi compiti; il più lungo silenzio tra noi due chiusi nella stessa stanza.
– Alle, vado in bagno… – annunciò, come un galeotto che avvisa il suo carceriere. Fino a quel momento non m’ero ancora accorto di quanto gradissi quel primigenio silenzio, soprattutto privo di voci umane a ricordarmi la presenza di altre persone nella stanza.
– E vai, no! – gli replicai infastidito – Cos’hai bisogno di me pure per quello? Ti serve qualcuno che ti venga a pulire! – probabilmente se n’era già andato prima della fine della frase. Ero stato forse troppo duro con lui, che non c’entrava nulla; ma essere cattivo con lui in quel momento mi faceva sentir meglio: come se condividessi il mio peso.

Luca si affacciò dallo schienale come marmotta timida, come a chiedermi permesso per poter venire in avanti, poi si sedette in quel poco spazio che avevo lasciato ai miei piedi.
– Posso? – chiese, mostrandomi il telecomando Accennai di sì.
Stava immobile a fissare la tivvù, seduto sul bordo del divano, come in prestito, e ogni tanto guardava me; poi mi girai supino e vidi che guardava più il mio pacco che me. A un certo punto fece come per allungare la mano.
– Oggi, non ne ho voglia! – lo seccai lapidario.
Dopo un minuto, Luca si alzò e venne da me a chiedermi: – Posso stendermi?
– Fai…
– Mi fai spazio?
– Su, mettiti… – l’esortai nuovamente, senza muovermi.
– Va be’, ho capito! – rispose scocciato, facendo per andarsene.
– No! Scusami… – lo fermai per un polso: – …non andartene, ti prego… stenditi!
– E fammi posto!
– No… qua! – gl’indicai: –… su di me! –, battendomi sopra il petto.
Luca allora si dispose a quattro zampe su di me, a un paio di spanne, un po’ indeciso su come affrontare quella novità. Era bello vederlo così, sembrava un angelo venuto per placare il mio animo; biondo, come una luce venuta a rischiare le mie tenebre, e dolce, come il suo carico su di me, che non mi pesava affatto, ma che anzi sembrava togliere gravità al mio peso. Mi sentivo meglio, anche se non avevo voglia di dimostrarglielo con qualche gesto d’affetto, come invece lui stava facendo, profondendosi in continui strofinamenti contro il mio petto e contro il mio resto.
– Luca, te ne stai fermo?
– Eh…sono scomodo: sono i pantaloni. Posso toglierli?
– Sì… – mi aveva colto alla sprovvista: – …ma poi non hai freddo? – riuscii a opporgli soltanto quello.
– Mi metto quella! – disse, indicando la coperta di Niki piegata su una sedia: quella che usavo per avvolgerlo ogni sera: mentre di giorno gliene combinavo di tutti i colori, la sera mi piaceva straviziavo come un bambino.
Goffamente si alzò, mettendosi nuovamente a quattro zampe. Ora, era come se per me il suo corpo fosse il cielo della stanza, sorretto da quei quattro pilastri che erano i suoi arti; poi si rimise in piedi, mostrandomi la sua patta rigonfia. Senza tanti preamboli si slacciò i pantaloni, che immediatamente calarono a terra come attratti da una forza spogliatrice. Non appena intravidi il suo pacchetto, allungai la mano per saggiarne la saputa consistenza. Luca s’irrigidì, e mentre prima gli palpavo le gonadi polpose, ora m’intrufolai sotto la mutanda per sentirne la delicata morbidezza. All’istante impazzii, esaltato da quella pelle morbida e vellutata. Lui eccitato – tutto riassunto nel suo sorrisetto malizioso – pensava di avermi riacceso finalmente la fiamma, ma ancora non mi andava di far qualcosa con lui.
– Lasciamo perdere… oggi non è giornata…! – lo licenziai con quella cocente delusione, ritirando via la mano.
Senz’alcuna disillusione, Luca si andò alla sedia, spiegò il panno per la sua intera lunghezza, portandoselo sulle spalle, e poi corse da me allargando le braccia e facendo il giro del divano, come un perfetto Batman goliardico: solo in mutande e senza calzamaglia. Rigiunto da me, sempre in silenzio, voltò la coperta per il lungo, sino ai piedi, e mi si rimise sovra a gattoni, prima di ridiscendere, solo che ora mi facevano una certa arrapatura le sue coscette smilze viste nel buio della coperta.
Non sapevo come reagire: Luca aveva su di me un effetto disarmante, ma anche terapeutico sul mio ego. La sua calma mi infondeva una voglia di somiglianza, di essere come lui; ma tutto quel che potevo era solo abbracciarlo più forte al mio petto sperando che qualcosa di lui confluisse in me.
– Ma perché mi stringi così tanto?– mi chiese dopo qualche minuto.
– È che sono stressato…
– Ah, dunque mi usi come antistress?
– Oh… ho provato con il gatto, ma con te c’è più soddisfazione, anche se sei mingherlino!
– Perché sarai grosso tu!... – replicò.
– Non intendo questo, però sei più piccolo di me.
– Uffa, la smetti con questa storia…
– Ma perché te la prendi… non è mica un difetto, anzi… – era quello che me lo faceva adorare così tanto: a rendermelo così tanto carino, e a farmelo sentire così tanto bisognoso di coccole. Io lo ammiravo: si era mostrato così comprensivo con me, che io non avrei saputo fare altrettanto a ruoli invertiti: avrei già inveito, imprecato, persino ingiuriato; ma lui no…
Si era appoggiato nuovamente su di me, come ad auscultare il mio cuore, e con le mani batteva il ritmo, ridacchiando: – Che hai da ridere?
– Tu-tuc… Tu-tuc... – mi fece. – Alle, ma perché sei arrabbiato? – sapevo che prima o poi sarebbe arrivata…
– Niente… ho litigato con i miei…
– Perché? – sussurrò discretamente.
– Luca, son cose personali…– e portai una mano, per rassicurarlo, sulla sua chioma. Non volevo addentrarmi nei dettagli, temevo che non avrebbe capito l’importanza del mio problema.
Dopo quel discorsetto, lo vidi alzarsi con la coperta dal sedere, mentre con tutto il resto restò aderente a me, e le sue mani scivolarono lungo i fianchi; tentai di fermarlo, ma: –Aspetta un attimo! – mi disse, entrando nelle mie mutande. Era un ordine a cui non potevo disubbidire.
Cominciò a muovermi rinfusamente tutta la matassa, di palle e bega assieme, per farmelo indurire. Poi continuò a menarmelo, con il polso a rovescio, sino a farmelo imbarzottire, mentre tutto il suo peso si concentrava in un unico punto del mio sterno, ma era per me un ancor più dolce fardello. Continuava e continuava ma non riusciva ad ottenere l’erezione sperata; non riuscivo: ero eccitato, ma non fino a quel punto.
Poi si girò con la testa, guardandomi in faccia. Io mi sforzai di guardarlo, di metterlo a fuoco, ma anche qui non riuscivo: vedevo solo una doppia attaccatura bionda e quattr’archi sopraciliari.
– Allora… va un po’ meglio? – mi disse goffamente, impuntando il mento nel mio petto.
– Luca… non è giornata!
– Ho capito… – disse come un piccolo adulto: – so io cosa fare! – e dopo quelle parole, scomparve sotto la coperta, nascondendosi completamente a me. Si raggomitolò sulle mie gambe, e cominciai subito a sentirlo bacettarmi su tutto il cazzo: dalle palle fin alla punta; giunto alla quale, scoprì e iniziò a succhiare. Eccolo il suo rimedio portentoso, questa volta proprio non capivo se lo facesse per me o per sé; era come al solito carnale e intriso di passione viscerale, ma pur godendo m mancava qualcosa capace di lasciarmi andare. Mi sentivo asettico, non riuscivo ad eccitarmi, e dopo qualche minuto iniziò pure a darmi noia: non lui, ma la mia incapacità di abbandonarmi. Sentivo ancora un turpe malessere, un sentimento misto nell’animo, afasico e indescrivibile: né rabbia, né noia, né stizza o dolore, ma tedio, un pungolo interiore, ora acuito anche dal suo inane suziare, che non riusciva a darmi il sollievo sperato, ma neanche a farmi montare a rabbia con lui. Dopo un’interminabile decina di minuti, Luca stufo e probabilmente stanco di non sentirmi neppure guaire per il suo immane sforzo abbandonò i miei molli resti dalla sua bocca, come tristi rovine al loro destino. Risalito inglorioso, piano sotto la coperta, ricomparve con il suo biondo volto: – Sei un osso duro…– mi disse, guardandomi divertito, per poi risistemarsi sul mio petto, come se stesse dormendo.
Non so perché, ma il suo buffo riapparire m’infuse buonumore, strappandomi anche un cenno di sorriso, che non mancai di comunicargli stringendolo più forte. Era veramente bello sentirmelo sopra di me, poggiato sul mio petto: sognavo da tempo di passare così un pomeriggio con lui, senza però quel tedio ad assillarmi.

Passò del tempo, e noi due fermi in quella stessa posizione, ogni tanto con qualche commento a interrompere il nostro silenzio o con lui che giocosamente mi litigava il telecomando, senza però mai separare l’orecchio dal mio petto.
– Luca, su alzati che è ora…
Sbuffando si rialzò, strusciandosi contro di me e avviluppandosi nelle coperte, come se non volesse ora mostrarsi seminudo a me. Tutto avvolto nella coperta, sembrava un cannoncino pronto per essere svuotato dalla sua deliziosa cremina, che lui rappresentava. Mi abbassai per raccogliergli i pantaloni (una gentilezza per tutta la pazienza mostrata), ma appena afferrai la cintura mi venne in mente di chiedergli come stesse Gianluca, e lui aprì la coperta: – Bene, direi! –, mostrandomi la sua cappella bell’e che fuori dagli slip.
A quel suo fare così naturale e alla visione di quell’organo mi eccitai follemente, sentii subito la libido scorrermi nelle vene come un fluido fortificatore, dandomi vigorìa anche laddove prima faticavo solo ad avere un’erezione. Ci passai la mano, e lui subito se ne accorse, uscendo dal suo bozzolo per saltarmi addosso. Mentre Luca mi avanzava, io mi declinavo; mentre lui m’abbassava la tuta, io mi eccitavo; mentre mi succhiava, godevo: finalmente godevo! Non potevo altro, impotente, che stringere quella costa di cintura; ora, era tutto diverso, come illuminato da una luce nuova. Ogni sua slinguazzata, ogni suo su e giù, era un orgasmo potente e liberatore; era come se tutta la carica orgiastica accumulata prima stesse ora prorompendo nella sua gola, e fu così dopo pochi minuti: quando regalai la miglior parte di me dentro di lui, che al solito non rifiutò.
Venni appena in tempo, prima di sentir transitare l’auto di mia madre per il vialetto di casa. Gli lanciai i pantaloni, che – finalmente soddisfatto di aver battuto l“osso duro” – calzò veloce come un fulmine; e quando mia madre entrò, l’incrociò solo l’attimo di un saluto: l’ideale per mantenere le distanze fra loro e la mia vita segreta con lui.

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