12 gennaio 2020

Come comincio...

Oggi non ho più voglia di vivere, vorrei soltanto di morire, scomparire come non essere mai nato, lavato via come lacrime nella pioggia…



appena ieri la macchina si fermò puntuale come sempre, davanti al mio cancello, ma una forza premonitrice già preannunciava che qualcosa era diverso: più scuro l’abitacolo, più pesante l’aria; sua madre mi salutava, ma la sua testa davanti al finestrino mancava, e il suo saluto argentino. Arrivato alla portiera, dovetti bussare per farmi aprire: sua madre perfino si voltò per fargli alzare la sicura, e solo allora riuscii a salire. Non si respirava dall’aria densa di tensione; non guardava dalla mia parte, ma fuori dal finestrino e con le braccia conserte; non avevo il coraggio di proferir verbo: quella cartella eretta fra noi come un muro, mi pareva un ostacolo insuperabile persino per le parole.
L’auto s’arrestò nel parcheggio della scuola, e lui fuggì dalla macchina. Prima di scendere sua madre mi fermò: – Alle… – mi disse: – non farci caso… non c’è abituato ad essere sgridato, vedi che gli passa! – mai previsione, forse, fu più errata… E pensare che quando lo raccontai ai miei si erano pure congratulati con me per la mia maturità, avendolo accompagnato a casa.
Luca mi precedeva cercando di metter fra noi due più passi possibili. Ma allungati il passo. – Luca… allora!
Cerca idi sdrammatizzare, mettendogli una mano sulla spalla; ma lui: – Mi raccomando difendimi! – rispose a bruciapelo, crollandosi il mio braccio di dosso.
– Ma che hai…?
Luca si voltò.
– Ieri… – accusò – ieri non hai detto niente…, e ora sono in punizione per colpa tua… per un’intera settimana! Bell’amico che sei! – indietreggiò, – BELL’AMICO CHE SEI! – urlò, scomparendo nella folla. D’ognintorno sguardi, mentre io cercavo di farmi piccolo piccolo per scivolare via come un verme dai loro occhi.
Forse avrei dovuto dir qualcosa… che l’avevo chiamato io… che ero io ad avergli messo fretta… che era colpa mia!


E che mi rimaneva ora? non più un amico: il mio Luca… non più da stringere e abbracciare, non più lui, non altro che il ricordo di quei primi giorni d’agosto, mentre mi masturbavo compulsivamente dall’ansia: ricordo ancora che era…

…erano anni che ormai andavamo sempre nella solita località di mare, in una di quelle amene cittadine romagnole non troppo giovane per le famiglie che ancora vogliono tenere i figli al guinzaglio e non troppo vecchia per i ragazzi da potersi lamentare della noia. C’eravamo ormai fatti un bel gruppetto: i nostri si conoscevano e oramai organizzavamo anche le vacanze apposta per far coincidere arrivi e partenze: nessuno voleva arrivare troppo presto o partire troppo tardi, per non perdersi quei giorni di svago in compagnia o non trovarsi giorni di noia in solitaria malinconia. Quest’anno, però, gli impegni di mio padre ci costrinsero a posticipare e a sforare poi nei primi d’agosto, perché lui voleva assolutamente fare tutti i giorni di vacanza al mare con la famiglia, anche se io non volevo: che ci faceva un sedicenne senza amici e da solo con papà?
I giorni passavano felici, e io tentavo di godermeli il più possibile, prima della settimana di solitudine che m’aspettava, e poi quest’anno non c’era nemmeno Robertino, lo spaccamaroni per antonomasia… Perché se noi eravamo il gruppo, capitava sempre – malauguratamente – che s’aggiungesse a noi anche un intruso: Robertino, per l’appunto; e per il solito fatto che “non dovevamo escludere nessuno” e che i suoi erano amici dei nostri, dovevamo sobbarcarcelo. Non l’odiavamo per partito preso, ma perché era semplicemente una piattola insopportabile: era il più piccolo, e già per questo c’era d’impiccio, e poi col fatto che arrivava sempre più tardi, quando noi eravamo ormai già tutti riaffiatati, sentendosi escluso, la sua indole mocciosa dava il meglio di sé con ripicche e dispetti. Inoltre fra noi due c’era proprio un’istintiva antipatia, non so perché: forse perché, essendo il più grande, per lui ero automaticamente anche il capo del gruppo, e quindi mia pure la colpa del suo collettivo ostracismo…; fatto sta che io, per la sua naturale impunità, essendo lui il più piccolo, divenivo il suo bersaglio preferito, e avendo un carattere piuttosto reattivo fra noi due era sempre baruffa. Tanto che per sbeffeggiarci, i nostri amici ci chiamavano “i fratellini”.
Tutt’era perfetto: il mare, il sole, l’estate; quando, per l’infelicità di tutti, una bella mattina ci vedemmo arrivare in contro sulla spiaggia il piccolo scocciatore col suo ghigno beffardo stampato sulla muso. Sull’istante gli avrei dato un cartone sulla faccia, perché fui il primo che guardò col suo sorrisetto bastardo; ma tutti gli corsero incontro, più falsi che mai, a dirgli quanto c’era mancato e a chiedergli come mai non fosse arrivato prima. C’era però in lui qualcosa di diverso quest’anno, non tanto nell’atteggiamento, sempre antipatico, ma fisicamente: aveva compiuto tredici anni – da già quattro mesi, credo – e si era sviluppato; non sembrava più un bimbetto: doveva aver raggiunto pure lui la pubertà, come tutti noi. Robertino era moro, con due iridi castane incastonate in viso pulito, dolce, da impubere; era bassino (da cui il diminutivo) e asciutto, non secco, ma robusto, con gli addominali che gli si vedevano appena. Tutto sommato aveva messo su un discreto fisichino per essere uno che giocava solo nei campetti dell’oratorio, e sarebbe anche stato la mascotte del gruppo, se non avesse sempre avuto quell’atteggiamento da smorfioso impertinente (che, fra l’altro, me lo faceva assomigliare certe volte, in sue certe espressioni, a Hobie, il figlio di Mitch, nella serie TV BayWatch, di cui, in quel periodo, andavano le repliche in cui avevano la stessa età).
Aveva finalmente abbandonato anche quei ridicoli costumini da bimbetto, per indossare boxer come tutti noi; anche se presto lo ribattezzammo: Mister “boxer indecente”. L’indecenza di quel costume non stava tanto nel colore, giallo, o nella sua fosforescenza, quanto nel suo divenire trasparente ogni volta contatto con l’acqua e nell’essergli così attillato, così affusolato al suo giovane corpo, da lasciar intravedere tutto, ma proprio tutto! e presto compresi perché ebbe pure dovuto cambiare abbigliamento: godeva, a ben vedere, di discreta mercanzia! Eravamo straniti dal suo costume, nessuno aveva il coraggio di dirglielo; anche perché pensavamo che in fondo lo sapesse, e che lo indossasse apposta per stare al centro dell’attenzione: si tuffava troppe volte a prender la palla per poi riemergere, mettendo tutto in bella mostra, per non esserne consapevole. Ben presto la sua smania di protagonismo e quel costume indecente divennero il nostro miglior modo per sfotterlo senza che lui se ne accorgesse: mai come quell’anno, infatti, andammo così tante volte in acqua a giocare a palla… ogni scusa era buona; e poi mi divertivo troppo a tirargliela lontano apposta, perché lui dovesse tuffarsi per raccoglierla, e poi riemergere.
Il suo nuovo aspetto e il poterlo prendere in giro, me lo resero quasi meno antipatico, e poi aveva trovato nuovi modi per attirare l’attenzione tutto sommato anche divertenti. Ricordo quando una volta eravamo tutti in spiaggia impegnati a risolvere un rebus, e io lo beccai, intanto, intento a fissare una carampana senza reggiseno: “Poverino!...” pensai “…ma com’è messo!”, per poi vederlo voltarsi e dire a quello sulla sdraio: – Oh, guarda qua! – mostrandogli compiaciuto la sua evidente erezione; e l’altro: – Ma che schifo! Porta via quel coso… – M’impressionò la stranezza del suo gonfiore: sembrava quasi che ci avesse messo dentro di nascono una maniglia, da come deviava di lato; se fossimo stati da soli noi due, non l’avrei cacciato via, ma avrei afferrato quel coso, e detto: – Vediamo che porta apre questa maniglia!
Sfortunatamente, dopo quell’episodio sembrava non aver più voglia di replicare l’esibizione, lasciandomi così nel dubbio circa l’entità della sua dotazione. La “maniglia” era impressionante, ma il boxer, si sa, inganna! e per me non era poi così dotato: se solo l’avesse rifatto in acqua, avrei fugato ogni mio dubbio. Il cruccio m’attanagliava e lui non si riproponeva: così escogitai uno stratagemma affinché fosse lui a rivelarmi il suo intimo segreto. Capitava sempre, infatti, che prima di risalire tutti andassero a farsi una bella nuotata al largo, tranne noi due più incerti delle nostre capacità natatorie; e quindi restavamo a mollo in riva con il materassino: ed era lì che nascevano i più sconclusionati discorsi.

Sostava da tempo una tatuatrice di tribali sulla spiaggia del nostro stabilimento; così, mentre sedevamo sul fondale, l’un di fronte all’altro, col materassino sulle gambe a coprire le vergogne, feci una battutina: – Guarda quella dei tatuaggi… pensa andare da lei a farsi fare un tatuaggio sull’uccello!
– Sì, magari un bel biscione! – disse con un sorrisetto a trentadue denti.
– Sì… ma per un bel biscione: ci vuole un bel serpente!... – replicai per farlo reagire.
– A beh, io posso! – iniziò: – Ce l’ho quindici e mezzo… – scandì con fierezza quel “mezzo” centimetro per lui motivo d’orgoglio, –…tu?
Avevo carpito l’informazione che volevo, ma potevo cogliere l’occasione per umiliarlo: – Boh… diciannove-venti, non so di preciso… – gli snocciolai con non curanza.
– Eh… diciannove-venti, vaffanculo! – mi fece il verso con un tono risentito e veramente antipatico.
– Senti, vaffanculo un corno! Se ce l’hai corto non è mica colpa mia, prenditela con te stesso! – o con la Natura o con sua madre! Gli avevo inflitto il primo colpo di grazia: 1 a 0.

Il giorno seguente, per rivincita, ci tenne a farmi sapere che anche lui sborrava.
– Stamattina mi sono svegliato con le mutande appiccicaticce… – mi comunicò.
– Uuuh, ma allora vieni… – dissi con tono sorpreso.
– Certo che vengo! – mi rispose inacidito – e già da un anno, almeno … e poi la cappella m’esce dalle mutande! – ma che me frega a me?
– Quanto ce l’hai? Quindici? – lo sfottei.
– Quindici e mezzo! – rispose ancora più piccato. – E poi un mio amico di quattordici ce l’ha ventitré! –
A parte che mi sarebbe proprio piaciuto vederlo coi miei occhi questo novello Siffredi, ma se pensava di mettermi in crisi facendomi sapere che c’era uno più piccolo di me che ce l’aveva più lungo del mio, si sbagliava, perché a me non poteva fregar di meno: dato che io, al contrario dei lui, ero già più che soddisfatto dei miei centimetri.
– Ma gliel’hai visto?
– No!
– E allora come fai a sapere che è vero? Comunque, meglio per lui! Perché adesso o mai più… – gli feci segno con le dita.
– Come adesso o mai più?
– …che tanto non gli cresce più! A quattordici, quello hai… – gli indicai – e quello ti rimane; cresce il resto, ma quello ciccia… – fu come ficcargli un coltello rovente nella carne viva: l’avevo bandito per sempre dall’olimpo dei venti. 2 a 0, sempre per me!

Il terzo giorno tornò nuovamente alla carica: attaccò, bisbigliando più volte: – Ah, che voglia di limonare… Ah, che voglio di limonare che ho!
– Che hai? – volevo vedere dove sarebbe arrivato.
– Ho voglia di limonare… ma non ho qui la mia ragazza…
– È bella? – gli detti corda, e lui m’incominciò a raccontare di tutto quello che ci faceva: seghe, pompini, sesso, sesso anale, di gruppo, orge, con ragazze più grandi. Dal suo allargarsi capii che quel cretinetti non aveva colto il fondo di sarcasmo del mio tono e che quindi mi raccontava tutto quelle credendo che io me le bevessi veramente: ero nero! L’avrei affogato in mezzo al mare, ma per non dargli ulteriore soddisfazione ingoiai il rospo e incassai il 2 a 1, comunque, sempre per me!

Arrivò l’ultimo giorno, e mentre tutti si preparavano al rientro, io mi preparavo mentalmente per quella noiosa settimana che m’attendeva: che da sola sembrava dover durare più dell’intera estate. A pranzo, però, mio padre mi stupì domandandomi se non mi pesasse quell’intera settimana da solo: pensai che, finalmente, dietro quella domanda si celasse la sensata proposta di tornare a casa anche noi, ma niente… fu, invece, lieto di comunicarmi che per tutto il tempo avremmo avuto con noi un ospite inatteso: Robertino!
I nostri padri erano divenuti, infatti, ottimi conoscenti, e siccome il suo non poteva assolutamente dilungarsi oltre per ragioni di lavoro – dopotutto, per quell’impiastro di figlio, non ne valeva la pena! –, chiese al mio se non potessimo ospitarlo noi, nel nostro appartamentino in affitto, scaricandoci così di fatto la patata bollente, con la solita scusa del dottorino che prescrive il mare come terapia al ragazzino… che strano!
Come sempre, l’abnegazione di mio padre nell’accogliere le richieste altrui, fu proverbiale: tanto che non solo accettò l’ospite, ma, siccome era di strada, s’offerse pure di riaccompagnarlo a casa, sollevando così suo padre pure dall’incomodo di venirselo a riprendere; in cambio, loro avrebbero riaccompagnato a casa mia madre, che non poteva più restare.
Era felice, lui, nel darmi la notizia: secondo lui, io e Robertino eravamo “amici”, anzi “amicissimi”, praticamente fratelli; lo fu molto meno nell’apprendere la verità: e cioè che io e Roberto non eravamo affatto amici, ma che anzi ci sopportavamo a malapena. Lui però aveva già dato la sua parola – la sua, appunto; non la mia! –, e poi… qualsivoglia mai sacrificio avrebbe potuto comportare per me la sua presenza? in fondo era soltanto un ragazzino, e io, essendo più grande, avrei dovuto capire… Insomma, neanche fosse stato il mio reale fratellino me l’avrebbero cacciata tanto regalmente in quel posto… e tanto profondamente! Quando si dice l’incomunicabilità!
La frittata era fatta, e io, volente o nolente, dovevo accettarla. L’unica cosa che avrei potuto cercare di cavare di buono da quella sciagurata situazione era che ora ero io il suo capo indiscusso, e quando mio padre non c’era, avrei saputo soltanto io a quali infinite angherie l’avrei sottoposto per prendermi tutte quelle agogniate rivincite! e poi, visto che nel bilocale avremmo dormito io e lui nel divano-letto in salotto, quella sua maniglia avrebbe finalmente svelato ogni suo segreto, e magari chissà… per sfregio ci sarebbe pure potuta scappare una qualche toccatina.

Quella sera i suoi c’invitarono al ristorante di pesce più in della città, per ringraziarci dell’ospitalità: dopotutto una ricompensa ce la meritavamo! Per tutta la cena fui un trionfo d’ipocrisia: sorridevo a suo padre, come se m’avesse fatto il regalo più bello del mondo. I suoi non erano antipatici: anzi, sembravano brava gente; peccato solo che avessero messo al mondo un essere indegno anche di starci anche solo un secondo di più, e che ci dipingessero come amici di lunga data. Quante cose non sanno i genitori dei figli, e quanti guai combinano nella presunzione di conoscerli…
Da come ce l’avevano sbolognato, inizialmente pensavo solo che volessero liberarsi di lui per passarsi finalmente una settimana da soli, dopotutto era una cosa comprensibile! ma da come lo vezzeggiavano, da come se lo coccolavano, capii ben presto che mi sbagliavo: Roberto era il loro piccolo gioiellino. Ricordo ancora gli occhi lucidi di mio padre nel guardare quella scenetta famigliare; lui li invidiava: avrebbe voluto anche per noi un rapporto ancora simile, ma doveva capire che non sono più il suo bambino! e più continuavano quella scenetta, più la mia vendetta sarebbe stata feroce: vorrà dire che la demolizione psichica della loro piccola gioia sarebbe stata la mia ragione di vita per quell’intera settimana!
Dopo cena, uscii con Roberto, e ne approfittai per dargli un assaggio di cosa l’aspettava, togliendomi via qualche sassolino dalla scarpa: gli raccontai quanto ci stesse sul cazzo a tutto il gruppo e di tutte le volte che negli anni gli avevamo mentito pur levarcelo dai piedi. La mia intenzione era quello di vederlo frignare per il marmocchio qual era; ma pur di non darmi soddisfazione, incomincio a gnolarsi, a dirmi di come si sentiva, eccetera, ma io non l’ascoltavo: cogitavo, meditavo il resto dell’angherie cui sottoporlo durante il resto della settimana, e pure quella notte stessa; così decisi che l’avrei umiliato, laddove gli era più caro: nella sua maniglia, forse con un confronto diretto, e forse anche con una toccatina in segno di disprezzo!

Rincasammo a mezzanotte, come voluto dal dispaccio paterno: già mi stava di zavorra per i miei orari! Mio padre dormiva e per non svegliarlo ordinai a Roberto di cambiarsi al buio e facendo il minor rumore possibile. Roberto aveva fiutato che oltre quella porta stava il mio regno e che il varco ne avrebbe sancito il definitivo degradamento da libero ragazzo a mio umile servo, ragion per cui mi doveva ubbidienza. Tornai dal bagno che difatti indossava già il suo celestino completino da nanna, di due taglie almeno più grande di lui: calzoncini sopra le ginocchia, maglietta cadente sulle spalle e calzini corti d’ordinanza. Era così buffo in quella mise, da sembrare un bambino privo solo del suo orsacchiotto! Tentai di leggerne la taglia nell’etichetta nella fioca luce della notte, ma cordialmente me la sottrasse, scomparendo nel buio della stanza per recarsi alla toilette; sorvolai su quel grave gesto di insolenza, perché tanto l’avrebbe pagata. Quando riemerse dall’ombra, terminai di arrangiare qualcosa che rassomigliasse il più possibile ad un letto; finalmente potevo imporgli il mio imperio, forte della mia duplice autorità di padrone di casa e maggiore d’età: gli assegnai il lato destro del letto: quello più lontano dall’unica finestra della stanza – la parte più fresca, giustamente, toccava a me.
Non capivo come con quel caldo potesse dormire così intabarrato: forse per lui l’idea di un contatto maschile nell’intimo di un letto era un tabù insuperabile, ma non per me, che già gli avevo concesso troppo infilandomi i pantaloni; e se quella sua smorfia di disappunto era dovuta alla mia seminudità superiore, affari suoi! …non avrei stravolto le mie abitudini per lui.
La stanchezza aleggiava sovrana, conducendomi tra le alettanti braccia di Morfeo, nonostante la sua querula presenza; ma neanche ebbi il tempo di coricarmi che Roberto cominciò a lamentarsi per il caldo della sua parte di stanza.
– La vedi la finestra? C’è ne una sola … e visto che l’ospite sei tu, qui ci dormo io! Se ti va bene è così… se no è lo stesso! – risposi rammentandogli il suo stato di sudditanza.
Mi guardò sbieco, come volendomi trucidare con lo sguardo, ma, conscio del suo stato, soggiunse mestamente: – Beh, visto che anche tu dormi senza, possono togliermi la maglietta…?
Che tenero… “la maglietta”, disse col vocino innocente, ma il tono tradì l’irritazione provata, dandomi sprono per oltraggiarlo oltremodo: – Guarda, puoi fare quel che vuoi, non me ne frega niente di te!! Basta solo che non ti spari le seghe a letto, poi, per quel che mi riguarda, puoi anche gettarti dalla finestra!
Quell’inciso era inutile, ma speravo solo che l’avesse colto per farmi dispetto col suo animo dispettoso.
Con apparente calma si tolse la giacca e prese a dormire, ma sapevo che dietro quell’indifferenza il suo moccioso interiore covava ripicca.

Un colpo al fianco: – Oh! Alle… – mi disse.
– Va’ a cagare!
– Alle, guarda! – Un’alta montagnola s’alzava sotto le lenzuola nei pressi del suo pube.
– Adesso m’incazzo!… – esclamai – …metti via quell’affarino e lasciami dormire! –; indi mi voltai. Sapevo che a sminuirgli “quell’affarino” sarebbe trasalito: povero prevedibile ragazzino…
Quell’iniziale montagnola, prima statica, ora s’agitava, come non mai, nel buio della notte. Mi girai appena: il piccolo bastardo sghignazzava beffardamente stantuffandosi il suo turgido ammennicolo; era ora di finirla! Con furia m’avventai su di lui, che d’istinto si voltò dall’altra parte per sottrarsi al brandimento. Un attimo, un sol vorticoso mulinello di lenzuola, e le coperte ci avvilupparono indissolubilmente: io e lui avvinghiati in un intricato dedalo d’arti tesi nel fremito di ghermire e difendere quel membro conteso. Lo sovrastavo completamente: ero in fondo più alto, più grande e più forte di lui! non poteva ribellarsi. Lui era lì, sotto di me, rigido in posizione fetale: con le gambe contratte, le braccia raccolte, il capo chino e il volto coperto; aveva paura, e come dargli torto? La mia ghigna ringhiosa a pochi centimetri dalla sua, e la destra infilata tra le cosce e il suo inguine a brandirgli l’uccello.
Provai qualcosa d’incredibile eccitante nello stringere quel brandello di carne così turgido e compatto: non eguagliava il mio per dimensione, ma di spessore era poco meno, dandomi al tatto un gran bel senso di soddisfazione. Anche lui era strano: non affannato per la paura o lo spavento, ma sembrava quasi più per l’eccitazione.
– …allora? – gli dissi, stringendo.
– Non lo faccio più! Non lo faccio più! – mi promise con un vocino sottile; ma nessun predatore molla la sua preda sul più bello. Anzi, stringendo più forte, gli chiesi ringhiosamente: – e quest’affarino sarebbero i tuoi quindici centimetri e mezzo?! – Intimorito, annuì mestamente.
M’appoggiai a lui con tutto me stesso per fargli sentire contro la schiena la mia erezione.
– Ed è questo cosino che ti sega la tua ragazza?! – strizzai nuovamente.
– No! No!
– Non te la sei mai fatta, vero?
– Sì…
– Perché non ci hai alcuna ragazza, è tutta una balla!
– Sì, è tutta una balla! – ammise.
– Bravo Robertino!
Così, dopo quell’estorta confessione, iniziai a muovere la mano in quello spazio stretto: su e giù due o tre volte per quell’uccello, andando sulla punta sentivo le mani aprirsi per la sua cappella bella larga, e quando ritornavo stringevo quella vigoria virile.
Man mano incominciai a imitare una sega, muovendogli la pelle, mentre mi concedeva sempre più spazio con le gambe. – …vuoi le seghe, no? – Preso in quel migma d’ansia e piacere, in bilico tra paura e desiderio, non rispose. Colpo dopo colpo l’avvertii rilassarsi: la sua positio fetalis decontrarsi, l’affanno disaffannarsi, giunto com’ero a fargli una vera e propria sega. Lo percepivo indifeso: quasi una voglia di tenerezza mi prese, sentendo il bisogno d’un contatto più stretto, appoggiando la mia testa alla sua. Se prima m’incitava il suo terrore, ora la sua inermità mi placava. Lo cinsi con tutto me stesso, quasi a fargli scudo dal mondo; l’avevo in grembo e percepivo i suoi tenui fremiti di piacere, di lui che con le mani abbassava le vesti. Che strano, pensai: inizialmente volevo solo vederglielo, magari toccarglielo in segno di spregio, ed ora lo stavo segando, e tutto ciò mi piaceva… anzi, ci piaceva!
Venti minuti stetti a masturbarlo, curando di non farlo venire, o l’indomani mattina le sue tracce di sperma avrebbero rivelato la nostra improvvida esperienza. Per vezzo l’odorai al capo, e una matta voglia di predominio mi prese di nuovo: d’improvviso quello stato di benessere non mi bastava più. Scosso da una folle bramosia, riafferrai la sua verga: – Vorresti venire? – pronunciai arrotando quell'erre, come il frinìo di un serpe a sonagli. Non rispose, accennò solo un gesto col capo. – …allora volti! – lo ghermii, ergendomi sulla sua imbelle figura, e lo scaraventai supino al centro del letto, scollandomi il lenzuolo di dosso.
I bagliori della strada giungevano a illuminare la scena: io sopra, sovrastando il suo inerme corpo, gettato là sotto come un uomo di Vitruvio, con la sua acerba muscolatura adombrata dalla fioca luce della notte.
Per non so qual senso del pudore, il suo timido fallo s’era nascosto sotto i pantaloni, ora solcati fino alla vita dalla sua inconfondibile forma. Col groppo alla gola gli portai i pantaloni alle caviglie, desideroso di svelare il bramato contenuto. Era proprio come l’aveva descritto: la sua cappellina turgida capolinava dall’elastico, col resto del malloppo ancora ben sotto quel drappo a lineette e pallini, e poco più sotto le globulose rotondità dei suoi giovani testicoli. Con ghigno d’onnipotenza, afferrai le sue palle per sincerarmene del contenuto, e il palmo fu pieno: aveva un bel paio di coglioni il ragazzino!
Smaniavo dalla voglia di scoprire tutto quel tosto manganello: avvoltai l’elastico per scoprine il primo pezzo. Era veramente eccitante vedere un cazzo tosto, dal vivo e da quella prospettiva: mi eccitava soprattutto il punto in cui l’asta finiva in quella sua fungina appella. Lo toccai col polpastrello e mi prese subito un capogiro. Feci scivolare pure le mutande alle sue caviglie, aiutato da lui a superare l’incaglio del sedere; ma allora non era una vittima innocente…! La sua verga trionfava diritta, fungiforme in tutta la sua lunghezza: quei quindici centimetri c’erano tutti; il mezzo non sapevo… ma non erano affatto pochi, specie se commisurati alla sua statura: era davvero un bel cinno cazzuto!
Riafferra il suo cazzo e coll’altra i gioielli, iniziando un massaggio scomposto di tutto il suo fallo. Ogni tanto partivo ad accarezzare dintorni, ma poi ritornavo a impugnarlo come un’elsa di spada: ora capivo perché alle ragazze piacere il cazzo! Tenere il sesso d’un uomo tutto tra le mani dava veramente una prepotente sensazione d’onnipotenza. E poi anche a lui doveva piacere, perché scappellicchiandoglielo vedevo già le sue prime tracce umorali stillare in goccine di piacere.
Dopo tutto quell’attendere, dopo tutto quel lambire l’orgasmo, senz’altro anche lui agognava più d’ogni cosa al mondo di sprofondarsi nel più sublime piacere; ma io l’avrei stuzzicato ancora, finché, satollo di libido e privo d’ogni orgoglio, non m’avesse supplicato di farlo venire, per poi negargli sadicamente anche quell’ultimo atto, come estremo gesto di disprezzo… ma perché farlo? in fondo io volevo scalfire il sub-limite oggettivo del proibito: veder come godeva, le sue smorfie di piacere, procurare un’eiaculatio non mia; e poi il suo seme… chissà che sapore aveva il suo indomito seme: quella goccina segretamente portata alla lingua... Gustavo quel pene tumescente sentendomelo già dentro fino alla gola: la sua turgidità, la sua fragranza, quel senso di pienezza; la mia mente vagava in un delirio psichedelico; però non potevo mostrargli quel lato di me: quella mia debolezza! Era questione d’orgoglio, di prestigio: non potevo, non potevo essere io il primo in quella stanza a prendere un cazzo in bocca! Che figura ci avrei fatto? Che avrebbe pensato? Avrebbe pensato che fossi… che fossi!… Ma come osava? Come osava anche solo lontanamente pensarlo?! Me l’avrebbe pagata! Doveva imparare che anche il libero pensiero ha un prezzo!
Avanzai con le ginocchia fin sotto le sue spalle: la mia protuberanza a pochi centimetri dalla sua faccia. Roberto fissò perplesso il mio pacco; il suo volto si fece un punto interrogativo. – Chiudi gli occhi! – gli gridai, sferrandoli un pugno vicino; poi m’appoggiai con la punta alle sue labbra: – …e ora succhia! – dissi.
Senza alcuna renitenza, dischiuse la boccuccia e vi fece scivolare dentro l’intera cappella. Non provai granché la prima con il glande coperto, ma guardai ugualmente al cielo e con mia grande goduria lo sentii succhiare di gran voga. Quando lo riguardai, ne aveva infilato quasi mezz’asta, alzando pure la testa per arrivare dove altrimenti non sarebbe arrivato. Ma allora gli piaceva…!
Con la stessa soddisfazione con cui si leva a un infante il suo ninnolo preferito, gli sfilai il pisello di bocca. Quindi scesi verso in lui, afferrandogli la faccina e dicendogli: – Non aprir più gli occhi! – Non volevo, mi vedesse!
Scesi, annusando il suo inebriante odor di ragazzino fino ad arrivare al suo sesso, dove, vedendolo, m’appoggiai con la guancia per sentirlo, ma era rovente. Improvvisamente la voglia mi riprese: l’afferrai, lo scappellai… La mia bocca scontava già tutta l’esperienza necessaria.
Sentii Roberto trattenne il respiro, forse non credeva che l’avrei fatto: nemmeno io! La levigatezza incredibile di quella cappella turgida m’inebriava: presi subito confidenza con quell’ospite inconsueto, come fosse un’enorme ciuccio. A ogni tocco di lingua ne apprendevo l’aroma, e i suoi mugolii levarsi nell’aria. Non avrei mai immaginato di trovarmi così a mio agio con un pene in bocca… il suo per giunta! Ora mi sembrava la cosa più naturale del mondo, non era affatto una cosa sconveniente tenere il pene d’un altro in bocca. Sarei stato per ore ed ore, forse notti, a succhiarglielo, con quell’aroma inebriante che mi dava la carica. Oramai mi sentivo in unicum sensoriale con lui: più forte succhiavo, più forte lui godeva e più cresceva la mia voglia di succhiarlo ancora. Non sapevo come sarebbe stato il gusto del seme, ma in quel momento l’idea di bere il suo succo acerbo mi garbava: …due, tre colpi di lingua ancora e la mia gola s’inondò del suo fluido liquoroso; non era buono, ma non sarebbe stato nemmeno definirlo disgustoso, mi abituai subito a quell’aroma pieno, quasi salato.
Ormai era completamente venuto, sentivo che non ne aveva più, ma non riuscivo ugualmente a lasciarlo, mi piaceva troppo averlo in bocca, il sapore mi eccitava, e poi lo sentivo ancora godere: s’agitava tuttora ad ogni passaggio di lingua, il corpo si percuoteva in infiniti spasmi di piacere, l’irrefrenabile frenesia di godimento tramutava i suoi gemiti in irreprimibili versetti di letizia. Fin quando le sue reazioni non si affievolirono anch’esse; così lo sfilai di malavoglia, mirandolo quel membro, prima vigoroso, che stava perdendo di rigidezza. Ripulii con la lingua gli ultimi resti di piacere intorno alla cappella, dandogli ancora qualche senso di godimento.
Mi sentivo soddisfatto, come liberato, mi faceva tenerezza ora osservare il volto di Robertino ancora pervaso dalla beatitudine dell’orgasmo; lo sentivo vicino, come più mio, ora che parte di lui era dentro di me. Mi distesi al suo fianco sussurrandogli di rilassarsi, non volevo rovinare il suo stato di torpore, così lo ricomposi io prima di ricoprirci con le lenzuola.
L’ora era tarda e una lieve brezza entrava nella stanza, di quelle che ti conciliano il sonno e aggradano il lieve tepore d’un tenero abbraccio; non mi andava di chiuderla, così abbracciai Roberto in cerca di quel calore che ci necessitava. In quell’istante, in quel tenero abbraccio, il suo morbido corpicino mi diede un’incredibile emozione di calma e piacere.

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