Oggi non ho più voglia di vivere, vorrei soltanto di morire, scomparire
come non essere mai nato, lavato via come lacrime nella pioggia…
appena
ieri la macchina si fermò puntuale come sempre, davanti al mio
cancello, ma una forza premonitrice già preannunciava che qualcosa era
diverso: più scuro l’abitacolo, più pesante l’aria; sua madre mi
salutava, ma la sua testa davanti al finestrino mancava, e il suo saluto
argentino. Arrivato alla portiera, dovetti bussare per farmi aprire:
sua madre perfino si voltò per fargli alzare la sicura, e solo allora
riuscii a salire. Non si respirava dall’aria densa di tensione; non
guardava dalla mia parte, ma fuori dal finestrino e con le braccia
conserte; non avevo il coraggio di proferir verbo: quella cartella
eretta fra noi come un muro, mi pareva un ostacolo insuperabile persino
per le parole.
L’auto s’arrestò nel parcheggio della scuola, e lui
fuggì dalla macchina. Prima di scendere sua madre mi fermò: – Alle… – mi
disse: – non farci caso… non c’è abituato ad essere sgridato, vedi che
gli passa! – mai previsione, forse, fu più errata… E pensare che quando
lo raccontai ai miei si erano pure congratulati con me per la mia
maturità, avendolo accompagnato a casa.
Luca mi precedeva cercando di metter fra noi due più passi possibili. Ma allungati il passo. – Luca… allora!
Cerca
idi sdrammatizzare, mettendogli una mano sulla spalla; ma lui: – Mi
raccomando difendimi! – rispose a bruciapelo, crollandosi il mio braccio
di dosso.
– Ma che hai…?
Luca si voltò.
– Ieri… – accusò –
ieri non hai detto niente…, e ora sono in punizione per colpa tua… per
un’intera settimana! Bell’amico che sei! – indietreggiò, – BELL’AMICO
CHE SEI! – urlò, scomparendo nella folla. D’ognintorno sguardi, mentre
io cercavo di farmi piccolo piccolo per scivolare via come un verme dai
loro occhi.
Forse avrei dovuto dir qualcosa… che l’avevo chiamato io… che ero io ad avergli messo fretta… che era colpa mia!
E
che mi rimaneva ora? non più un amico: il mio Luca… non più da
stringere e abbracciare, non più lui, non altro che il ricordo di quei
primi giorni d’agosto, mentre mi masturbavo compulsivamente dall’ansia:
ricordo ancora che era…
…erano anni che
ormai andavamo sempre nella solita località di mare, in una di quelle
amene cittadine romagnole non troppo giovane per le famiglie che ancora
vogliono tenere i figli al guinzaglio e non troppo vecchia per i ragazzi
da potersi lamentare della noia. C’eravamo ormai fatti un bel
gruppetto: i nostri si conoscevano e oramai organizzavamo anche le
vacanze apposta per far coincidere arrivi e partenze: nessuno voleva
arrivare troppo presto o partire troppo tardi, per non perdersi quei
giorni di svago in compagnia o non trovarsi giorni di noia in solitaria
malinconia. Quest’anno, però, gli impegni di mio padre ci costrinsero a
posticipare e a sforare poi nei primi d’agosto, perché lui voleva
assolutamente fare tutti i giorni di vacanza al mare con la famiglia,
anche se io non volevo: che ci faceva un sedicenne senza amici e da solo
con papà?
I giorni passavano felici, e io tentavo di godermeli il
più possibile, prima della settimana di solitudine che m’aspettava, e
poi quest’anno non c’era nemmeno Robertino, lo spaccamaroni per
antonomasia… Perché se noi eravamo il gruppo, capitava sempre –
malauguratamente – che s’aggiungesse a noi anche un intruso: Robertino,
per l’appunto; e per il solito fatto che “non dovevamo escludere
nessuno” e che i suoi erano amici dei nostri, dovevamo sobbarcarcelo.
Non l’odiavamo per partito preso, ma perché era semplicemente una
piattola insopportabile: era il più piccolo, e già per questo c’era
d’impiccio, e poi col fatto che arrivava sempre più tardi, quando noi
eravamo ormai già tutti riaffiatati, sentendosi escluso, la sua indole
mocciosa dava il meglio di sé con ripicche e dispetti. Inoltre fra noi
due c’era proprio un’istintiva antipatia, non so perché: forse perché,
essendo il più grande, per lui ero automaticamente anche il capo del
gruppo, e quindi mia pure la colpa del suo collettivo ostracismo…; fatto
sta che io, per la sua naturale impunità, essendo lui il più piccolo,
divenivo il suo bersaglio preferito, e avendo un carattere piuttosto
reattivo fra noi due era sempre baruffa. Tanto che per sbeffeggiarci, i
nostri amici ci chiamavano “i fratellini”.
Tutt’era perfetto: il
mare, il sole, l’estate; quando, per l’infelicità di tutti, una bella
mattina ci vedemmo arrivare in contro sulla spiaggia il piccolo
scocciatore col suo ghigno beffardo stampato sulla muso. Sull’istante
gli avrei dato un cartone sulla faccia, perché fui il primo che guardò
col suo sorrisetto bastardo; ma tutti gli corsero incontro, più falsi
che mai, a dirgli quanto c’era mancato e a chiedergli come mai non fosse
arrivato prima. C’era però in lui qualcosa di diverso quest’anno, non
tanto nell’atteggiamento, sempre antipatico, ma fisicamente: aveva
compiuto tredici anni – da già quattro mesi, credo – e si era
sviluppato; non sembrava più un bimbetto: doveva aver raggiunto pure lui
la pubertà, come tutti noi. Robertino era moro, con due iridi castane
incastonate in viso pulito, dolce, da impubere; era bassino (da cui il
diminutivo) e asciutto, non secco, ma robusto, con gli addominali che
gli si vedevano appena. Tutto sommato aveva messo su un discreto
fisichino per essere uno che giocava solo nei campetti dell’oratorio, e
sarebbe anche stato la mascotte del gruppo, se non avesse sempre avuto
quell’atteggiamento da smorfioso impertinente (che, fra l’altro, me lo
faceva assomigliare certe volte, in sue certe espressioni, a Hobie, il
figlio di Mitch, nella serie TV BayWatch, di cui, in quel periodo, andavano le repliche in cui avevano la stessa età).
Aveva
finalmente abbandonato anche quei ridicoli costumini da bimbetto, per
indossare boxer come tutti noi; anche se presto lo ribattezzammo: Mister
“boxer indecente”. L’indecenza di quel costume non stava tanto nel
colore, giallo, o nella sua fosforescenza, quanto nel suo divenire
trasparente ogni volta contatto con l’acqua e nell’essergli così
attillato, così affusolato al suo giovane corpo, da lasciar intravedere
tutto, ma proprio tutto! e presto compresi perché ebbe pure dovuto
cambiare abbigliamento: godeva, a ben vedere, di discreta mercanzia!
Eravamo straniti dal suo costume, nessuno aveva il coraggio di
dirglielo; anche perché pensavamo che in fondo lo sapesse, e che lo
indossasse apposta per stare al centro dell’attenzione: si tuffava
troppe volte a prender la palla per poi riemergere, mettendo tutto in
bella mostra, per non esserne consapevole. Ben presto la sua smania di
protagonismo e quel costume indecente divennero il nostro miglior modo
per sfotterlo senza che lui se ne accorgesse: mai come quell’anno,
infatti, andammo così tante volte in acqua a giocare a palla… ogni scusa
era buona; e poi mi divertivo troppo a tirargliela lontano apposta,
perché lui dovesse tuffarsi per raccoglierla, e poi riemergere.
Il
suo nuovo aspetto e il poterlo prendere in giro, me lo resero quasi meno
antipatico, e poi aveva trovato nuovi modi per attirare l’attenzione
tutto sommato anche divertenti. Ricordo quando una volta eravamo tutti
in spiaggia impegnati a risolvere un rebus, e io lo beccai, intanto,
intento a fissare una carampana senza reggiseno: “Poverino!...” pensai
“…ma com’è messo!”, per poi vederlo voltarsi e dire a quello sulla
sdraio: – Oh, guarda qua! – mostrandogli compiaciuto la sua evidente
erezione; e l’altro: – Ma che schifo! Porta via quel coso… –
M’impressionò la stranezza del suo gonfiore: sembrava quasi che ci
avesse messo dentro di nascono una maniglia, da come deviava di lato; se
fossimo stati da soli noi due, non l’avrei cacciato via, ma avrei
afferrato quel coso, e detto: – Vediamo che porta apre questa maniglia!
Sfortunatamente,
dopo quell’episodio sembrava non aver più voglia di replicare
l’esibizione, lasciandomi così nel dubbio circa l’entità della sua
dotazione. La “maniglia” era impressionante, ma il boxer, si sa,
inganna! e per me non era poi così dotato: se solo l’avesse rifatto in
acqua, avrei fugato ogni mio dubbio. Il cruccio m’attanagliava e lui non
si riproponeva: così escogitai uno stratagemma affinché fosse lui a
rivelarmi il suo intimo segreto. Capitava sempre, infatti, che prima di
risalire tutti andassero a farsi una bella nuotata al largo, tranne noi
due più incerti delle nostre capacità natatorie; e quindi restavamo a
mollo in riva con il materassino: ed era lì che nascevano i più
sconclusionati discorsi.
Sostava da tempo una tatuatrice di
tribali sulla spiaggia del nostro stabilimento; così, mentre sedevamo
sul fondale, l’un di fronte all’altro, col materassino sulle gambe a
coprire le vergogne, feci una battutina: – Guarda quella dei tatuaggi…
pensa andare da lei a farsi fare un tatuaggio sull’uccello!
– Sì, magari un bel biscione! – disse con un sorrisetto a trentadue denti.
– Sì… ma per un bel biscione: ci vuole un bel serpente!... – replicai per farlo reagire.
–
A beh, io posso! – iniziò: – Ce l’ho quindici e mezzo… – scandì con
fierezza quel “mezzo” centimetro per lui motivo d’orgoglio, –…tu?
Avevo
carpito l’informazione che volevo, ma potevo cogliere l’occasione per
umiliarlo: – Boh… diciannove-venti, non so di preciso… – gli snocciolai
con non curanza.
– Eh… diciannove-venti, vaffanculo! – mi fece il verso con un tono risentito e veramente antipatico.
–
Senti, vaffanculo un corno! Se ce l’hai corto non è mica colpa mia,
prenditela con te stesso! – o con la Natura o con sua madre! Gli avevo
inflitto il primo colpo di grazia: 1 a 0.
Il giorno seguente, per rivincita, ci tenne a farmi sapere che anche lui sborrava.
– Stamattina mi sono svegliato con le mutande appiccicaticce… – mi comunicò.
– Uuuh, ma allora vieni… – dissi con tono sorpreso.
– Certo che vengo! – mi rispose inacidito – e già da un anno, almeno … e poi la cappella m’esce dalle mutande! – ma che me frega a me?
– Quanto ce l’hai? Quindici? – lo sfottei.
– Quindici e mezzo! – rispose ancora più piccato. – E poi un mio amico di quattordici ce l’ha ventitré! –
A
parte che mi sarebbe proprio piaciuto vederlo coi miei occhi questo
novello Siffredi, ma se pensava di mettermi in crisi facendomi sapere
che c’era uno più piccolo di me che ce l’aveva più lungo del mio, si
sbagliava, perché a me non poteva fregar di meno: dato che io, al
contrario dei lui, ero già più che soddisfatto dei miei centimetri.
– Ma gliel’hai visto?
– No!
– E allora come fai a sapere che è vero? Comunque, meglio per lui! Perché adesso o mai più… – gli feci segno con le dita.
– Come adesso o mai più?
–
…che tanto non gli cresce più! A quattordici, quello hai… – gli indicai
– e quello ti rimane; cresce il resto, ma quello ciccia… – fu come
ficcargli un coltello rovente nella carne viva: l’avevo bandito per
sempre dall’olimpo dei venti. 2 a 0, sempre per me!
Il terzo
giorno tornò nuovamente alla carica: attaccò, bisbigliando più volte: –
Ah, che voglia di limonare… Ah, che voglio di limonare che ho!
– Che hai? – volevo vedere dove sarebbe arrivato.
– Ho voglia di limonare… ma non ho qui la mia ragazza…
–
È bella? – gli detti corda, e lui m’incominciò a raccontare di tutto
quello che ci faceva: seghe, pompini, sesso, sesso anale, di gruppo,
orge, con ragazze più grandi. Dal suo allargarsi capii che quel
cretinetti non aveva colto il fondo di sarcasmo del mio tono e che
quindi mi raccontava tutto quelle credendo che io me le bevessi
veramente: ero nero! L’avrei affogato in mezzo al mare, ma per non
dargli ulteriore soddisfazione ingoiai il rospo e incassai il 2 a 1,
comunque, sempre per me!
Arrivò l’ultimo giorno, e mentre tutti
si preparavano al rientro, io mi preparavo mentalmente per quella noiosa
settimana che m’attendeva: che da sola sembrava dover durare più
dell’intera estate. A pranzo, però, mio padre mi stupì domandandomi se
non mi pesasse quell’intera settimana da solo: pensai che, finalmente,
dietro quella domanda si celasse la sensata proposta di tornare a casa
anche noi, ma niente… fu, invece, lieto di comunicarmi che per tutto il
tempo avremmo avuto con noi un ospite inatteso: Robertino!
I nostri
padri erano divenuti, infatti, ottimi conoscenti, e siccome il suo non
poteva assolutamente dilungarsi oltre per ragioni di lavoro – dopotutto,
per quell’impiastro di figlio, non ne valeva la pena! –, chiese al mio
se non potessimo ospitarlo noi, nel nostro appartamentino in affitto,
scaricandoci così di fatto la patata bollente, con la solita scusa del
dottorino che prescrive il mare come terapia al ragazzino… che strano!
Come
sempre, l’abnegazione di mio padre nell’accogliere le richieste altrui,
fu proverbiale: tanto che non solo accettò l’ospite, ma, siccome era di
strada, s’offerse pure di riaccompagnarlo a casa, sollevando così suo
padre pure dall’incomodo di venirselo a riprendere; in cambio, loro
avrebbero riaccompagnato a casa mia madre, che non poteva più restare.
Era
felice, lui, nel darmi la notizia: secondo lui, io e Robertino eravamo
“amici”, anzi “amicissimi”, praticamente fratelli; lo fu molto meno
nell’apprendere la verità: e cioè che io e Roberto non eravamo affatto
amici, ma che anzi ci sopportavamo a malapena. Lui però aveva già dato
la sua parola – la sua, appunto; non la mia! –, e poi… qualsivoglia mai
sacrificio avrebbe potuto comportare per me la sua presenza? in fondo
era soltanto un ragazzino, e io, essendo più grande, avrei dovuto
capire… Insomma, neanche fosse stato il mio reale fratellino me
l’avrebbero cacciata tanto regalmente in quel posto… e tanto
profondamente! Quando si dice l’incomunicabilità!
La frittata era
fatta, e io, volente o nolente, dovevo accettarla. L’unica cosa che
avrei potuto cercare di cavare di buono da quella sciagurata situazione
era che ora ero io il suo capo indiscusso, e quando mio padre non c’era,
avrei saputo soltanto io a quali infinite angherie l’avrei sottoposto
per prendermi tutte quelle agogniate rivincite! e poi, visto che nel
bilocale avremmo dormito io e lui nel divano-letto in salotto, quella
sua maniglia avrebbe finalmente svelato ogni suo segreto, e magari
chissà… per sfregio ci sarebbe pure potuta scappare una qualche
toccatina.
Quella sera i suoi c’invitarono al ristorante di pesce più in
della città, per ringraziarci dell’ospitalità: dopotutto una ricompensa
ce la meritavamo! Per tutta la cena fui un trionfo d’ipocrisia:
sorridevo a suo padre, come se m’avesse fatto il regalo più bello del
mondo. I suoi non erano antipatici: anzi, sembravano brava gente;
peccato solo che avessero messo al mondo un essere indegno anche di
starci anche solo un secondo di più, e che ci dipingessero come amici di
lunga data. Quante cose non sanno i genitori dei figli, e quanti guai
combinano nella presunzione di conoscerli…
Da come ce l’avevano
sbolognato, inizialmente pensavo solo che volessero liberarsi di lui per
passarsi finalmente una settimana da soli, dopotutto era una cosa
comprensibile! ma da come lo vezzeggiavano, da come se lo coccolavano,
capii ben presto che mi sbagliavo: Roberto era il loro piccolo
gioiellino. Ricordo ancora gli occhi lucidi di mio padre nel guardare
quella scenetta famigliare; lui li invidiava: avrebbe voluto anche per
noi un rapporto ancora simile, ma doveva capire che non sono più il suo
bambino! e più continuavano quella scenetta, più la mia vendetta sarebbe
stata feroce: vorrà dire che la demolizione psichica della loro piccola
gioia sarebbe stata la mia ragione di vita per quell’intera settimana!
Dopo
cena, uscii con Roberto, e ne approfittai per dargli un assaggio di
cosa l’aspettava, togliendomi via qualche sassolino dalla scarpa: gli
raccontai quanto ci stesse sul cazzo a tutto il gruppo e di tutte le
volte che negli anni gli avevamo mentito pur levarcelo dai piedi. La mia
intenzione era quello di vederlo frignare per il marmocchio qual era;
ma pur di non darmi soddisfazione, incomincio a gnolarsi, a dirmi di
come si sentiva, eccetera, ma io non l’ascoltavo: cogitavo, meditavo il
resto dell’angherie cui sottoporlo durante il resto della settimana, e
pure quella notte stessa; così decisi che l’avrei umiliato, laddove gli
era più caro: nella sua maniglia, forse con un confronto diretto, e
forse anche con una toccatina in segno di disprezzo!
Rincasammo a
mezzanotte, come voluto dal dispaccio paterno: già mi stava di zavorra
per i miei orari! Mio padre dormiva e per non svegliarlo ordinai a
Roberto di cambiarsi al buio e facendo il minor rumore possibile.
Roberto aveva fiutato che oltre quella porta stava il mio regno e che il
varco ne avrebbe sancito il definitivo degradamento da libero ragazzo a
mio umile servo, ragion per cui mi doveva ubbidienza. Tornai dal bagno
che difatti indossava già il suo celestino completino da nanna, di due
taglie almeno più grande di lui: calzoncini sopra le ginocchia,
maglietta cadente sulle spalle e calzini corti d’ordinanza. Era così
buffo in quella mise, da sembrare un bambino privo solo del suo
orsacchiotto! Tentai di leggerne la taglia nell’etichetta nella fioca
luce della notte, ma cordialmente me la sottrasse, scomparendo nel buio
della stanza per recarsi alla toilette; sorvolai su quel grave gesto di
insolenza, perché tanto l’avrebbe pagata. Quando riemerse dall’ombra,
terminai di arrangiare qualcosa che rassomigliasse il più possibile ad
un letto; finalmente potevo imporgli il mio imperio, forte della mia
duplice autorità di padrone di casa e maggiore d’età: gli assegnai il
lato destro del letto: quello più lontano dall’unica finestra della
stanza – la parte più fresca, giustamente, toccava a me.
Non capivo
come con quel caldo potesse dormire così intabarrato: forse per lui
l’idea di un contatto maschile nell’intimo di un letto era un tabù
insuperabile, ma non per me, che già gli avevo concesso troppo
infilandomi i pantaloni; e se quella sua smorfia di disappunto era
dovuta alla mia seminudità superiore, affari suoi! …non avrei stravolto
le mie abitudini per lui.
La stanchezza aleggiava sovrana,
conducendomi tra le alettanti braccia di Morfeo, nonostante la sua
querula presenza; ma neanche ebbi il tempo di coricarmi che Roberto
cominciò a lamentarsi per il caldo della sua parte di stanza.
– La
vedi la finestra? C’è ne una sola … e visto che l’ospite sei tu, qui ci
dormo io! Se ti va bene è così… se no è lo stesso! – risposi
rammentandogli il suo stato di sudditanza.
Mi guardò sbieco, come
volendomi trucidare con lo sguardo, ma, conscio del suo stato, soggiunse
mestamente: – Beh, visto che anche tu dormi senza, possono togliermi la
maglietta…?
Che tenero… “la maglietta”, disse col vocino innocente,
ma il tono tradì l’irritazione provata, dandomi sprono per oltraggiarlo
oltremodo: – Guarda, puoi fare quel che vuoi, non me ne frega niente di
te!! Basta solo che non ti spari le seghe a letto, poi, per quel che mi
riguarda, puoi anche gettarti dalla finestra!
Quell’inciso era inutile, ma speravo solo che l’avesse colto per farmi dispetto col suo animo dispettoso.
Con
apparente calma si tolse la giacca e prese a dormire, ma sapevo che
dietro quell’indifferenza il suo moccioso interiore covava ripicca.
Un colpo al fianco: – Oh! Alle… – mi disse.
– Va’ a cagare!
– Alle, guarda! – Un’alta montagnola s’alzava sotto le lenzuola nei pressi del suo pube.
–
Adesso m’incazzo!… – esclamai – …metti via quell’affarino e lasciami
dormire! –; indi mi voltai. Sapevo che a sminuirgli “quell’affarino”
sarebbe trasalito: povero prevedibile ragazzino…
Quell’iniziale
montagnola, prima statica, ora s’agitava, come non mai, nel buio della
notte. Mi girai appena: il piccolo bastardo sghignazzava beffardamente
stantuffandosi il suo turgido ammennicolo; era ora di finirla! Con furia
m’avventai su di lui, che d’istinto si voltò dall’altra parte per
sottrarsi al brandimento. Un attimo, un sol vorticoso mulinello di
lenzuola, e le coperte ci avvilupparono indissolubilmente: io e lui
avvinghiati in un intricato dedalo d’arti tesi nel fremito di ghermire e
difendere quel membro conteso. Lo sovrastavo completamente: ero in
fondo più alto, più grande e più forte di lui! non poteva ribellarsi.
Lui era lì, sotto di me, rigido in posizione fetale: con le gambe
contratte, le braccia raccolte, il capo chino e il volto coperto; aveva
paura, e come dargli torto? La mia ghigna ringhiosa a pochi centimetri
dalla sua, e la destra infilata tra le cosce e il suo inguine a
brandirgli l’uccello.
Provai qualcosa d’incredibile eccitante nello
stringere quel brandello di carne così turgido e compatto: non
eguagliava il mio per dimensione, ma di spessore era poco meno, dandomi
al tatto un gran bel senso di soddisfazione. Anche lui era strano: non
affannato per la paura o lo spavento, ma sembrava quasi più per
l’eccitazione.
– …allora? – gli dissi, stringendo.
– Non lo faccio
più! Non lo faccio più! – mi promise con un vocino sottile; ma nessun
predatore molla la sua preda sul più bello. Anzi, stringendo più forte,
gli chiesi ringhiosamente: – e quest’affarino sarebbero i tuoi quindici
centimetri e mezzo?! – Intimorito, annuì mestamente.
M’appoggiai a lui con tutto me stesso per fargli sentire contro la schiena la mia erezione.
– Ed è questo cosino che ti sega la tua ragazza?! – strizzai nuovamente.
– No! No!
– Non te la sei mai fatta, vero?
– Sì…
– Perché non ci hai alcuna ragazza, è tutta una balla!
– Sì, è tutta una balla! – ammise.
– Bravo Robertino!
Così,
dopo quell’estorta confessione, iniziai a muovere la mano in quello
spazio stretto: su e giù due o tre volte per quell’uccello, andando
sulla punta sentivo le mani aprirsi per la sua cappella bella larga, e
quando ritornavo stringevo quella vigoria virile.
Man mano
incominciai a imitare una sega, muovendogli la pelle, mentre mi
concedeva sempre più spazio con le gambe. – …vuoi le seghe, no? – Preso
in quel migma d’ansia e piacere, in bilico tra paura e desiderio, non
rispose. Colpo dopo colpo l’avvertii rilassarsi: la sua positio fetalis decontrarsi,
l’affanno disaffannarsi, giunto com’ero a fargli una vera e propria
sega. Lo percepivo indifeso: quasi una voglia di tenerezza mi prese,
sentendo il bisogno d’un contatto più stretto, appoggiando la mia testa
alla sua. Se prima m’incitava il suo terrore, ora la sua inermità mi
placava. Lo cinsi con tutto me stesso, quasi a fargli scudo dal mondo;
l’avevo in grembo e percepivo i suoi tenui fremiti di piacere, di lui
che con le mani abbassava le vesti. Che strano, pensai: inizialmente
volevo solo vederglielo, magari toccarglielo in segno di spregio, ed ora
lo stavo segando, e tutto ciò mi piaceva… anzi, ci piaceva!
Venti
minuti stetti a masturbarlo, curando di non farlo venire, o l’indomani
mattina le sue tracce di sperma avrebbero rivelato la nostra improvvida
esperienza. Per vezzo l’odorai al capo, e una matta voglia di predominio
mi prese di nuovo: d’improvviso quello stato di benessere non mi
bastava più. Scosso da una folle bramosia, riafferrai la sua verga: –
Vorresti venire? – pronunciai arrotando quell'erre, come il frinìo di un
serpe a sonagli. Non rispose, accennò solo un gesto col capo. – …allora
volti! – lo ghermii, ergendomi sulla sua imbelle figura, e lo
scaraventai supino al centro del letto, scollandomi il lenzuolo di
dosso.
I bagliori della strada giungevano a illuminare la scena: io
sopra, sovrastando il suo inerme corpo, gettato là sotto come un uomo di
Vitruvio, con la sua acerba muscolatura adombrata dalla fioca luce
della notte.
Per non so qual senso del pudore, il suo timido fallo
s’era nascosto sotto i pantaloni, ora solcati fino alla vita dalla sua
inconfondibile forma. Col groppo alla gola gli portai i pantaloni alle
caviglie, desideroso di svelare il bramato contenuto. Era proprio come
l’aveva descritto: la sua cappellina turgida capolinava dall’elastico,
col resto del malloppo ancora ben sotto quel drappo a lineette e
pallini, e poco più sotto le globulose rotondità dei suoi giovani
testicoli. Con ghigno d’onnipotenza, afferrai le sue palle per
sincerarmene del contenuto, e il palmo fu pieno: aveva un bel paio di
coglioni il ragazzino!
Smaniavo dalla voglia di scoprire tutto quel
tosto manganello: avvoltai l’elastico per scoprine il primo pezzo. Era
veramente eccitante vedere un cazzo tosto, dal vivo e da quella
prospettiva: mi eccitava soprattutto il punto in cui l’asta finiva in
quella sua fungina appella. Lo toccai col polpastrello e mi prese subito
un capogiro. Feci scivolare pure le mutande alle sue caviglie, aiutato
da lui a superare l’incaglio del sedere; ma allora non era una vittima
innocente…! La sua verga trionfava diritta, fungiforme in tutta la sua
lunghezza: quei quindici centimetri c’erano tutti; il mezzo non sapevo… ma non erano affatto pochi, specie se commisurati alla sua statura: era davvero un bel cinno cazzuto!
Riafferra
il suo cazzo e coll’altra i gioielli, iniziando un massaggio scomposto
di tutto il suo fallo. Ogni tanto partivo ad accarezzare dintorni, ma
poi ritornavo a impugnarlo come un’elsa di spada: ora capivo perché alle
ragazze piacere il cazzo! Tenere il sesso d’un uomo tutto tra le mani
dava veramente una prepotente sensazione d’onnipotenza. E poi anche a
lui doveva piacere, perché scappellicchiandoglielo vedevo già le sue
prime tracce umorali stillare in goccine di piacere.
Dopo tutto
quell’attendere, dopo tutto quel lambire l’orgasmo, senz’altro anche lui
agognava più d’ogni cosa al mondo di sprofondarsi nel più sublime
piacere; ma io l’avrei stuzzicato ancora, finché, satollo di libido e
privo d’ogni orgoglio, non m’avesse supplicato di farlo venire, per poi
negargli sadicamente anche quell’ultimo atto, come estremo gesto di
disprezzo… ma perché farlo? in fondo io volevo scalfire il sub-limite
oggettivo del proibito: veder come godeva, le sue smorfie di piacere,
procurare un’eiaculatio non mia; e poi il suo seme… chissà che
sapore aveva il suo indomito seme: quella goccina segretamente portata
alla lingua... Gustavo quel pene tumescente sentendomelo già dentro fino
alla gola: la sua turgidità, la sua fragranza, quel senso di pienezza;
la mia mente vagava in un delirio psichedelico; però non potevo
mostrargli quel lato di me: quella mia debolezza! Era questione
d’orgoglio, di prestigio: non potevo, non potevo essere io il primo in
quella stanza a prendere un cazzo in bocca! Che figura ci avrei fatto?
Che avrebbe pensato? Avrebbe pensato che fossi… che fossi!… Ma come
osava? Come osava anche solo lontanamente pensarlo?! Me l’avrebbe
pagata! Doveva imparare che anche il libero pensiero ha un prezzo!
Avanzai
con le ginocchia fin sotto le sue spalle: la mia protuberanza a pochi
centimetri dalla sua faccia. Roberto fissò perplesso il mio pacco; il
suo volto si fece un punto interrogativo. – Chiudi gli occhi! – gli
gridai, sferrandoli un pugno vicino; poi m’appoggiai con la punta alle
sue labbra: – …e ora succhia! – dissi.
Senza alcuna renitenza,
dischiuse la boccuccia e vi fece scivolare dentro l’intera cappella. Non
provai granché la prima con il glande coperto, ma guardai ugualmente al
cielo e con mia grande goduria lo sentii succhiare di gran voga. Quando
lo riguardai, ne aveva infilato quasi mezz’asta, alzando pure la testa
per arrivare dove altrimenti non sarebbe arrivato. Ma allora gli
piaceva…!
Con la stessa soddisfazione con cui si leva a un infante il
suo ninnolo preferito, gli sfilai il pisello di bocca. Quindi scesi
verso in lui, afferrandogli la faccina e dicendogli: – Non aprir più gli
occhi! – Non volevo, mi vedesse!
Scesi, annusando il suo inebriante
odor di ragazzino fino ad arrivare al suo sesso, dove, vedendolo,
m’appoggiai con la guancia per sentirlo, ma era rovente. Improvvisamente
la voglia mi riprese: l’afferrai, lo scappellai… La mia bocca scontava
già tutta l’esperienza necessaria.
Sentii Roberto trattenne il
respiro, forse non credeva che l’avrei fatto: nemmeno io! La levigatezza
incredibile di quella cappella turgida m’inebriava: presi subito
confidenza con quell’ospite inconsueto, come fosse un’enorme ciuccio. A
ogni tocco di lingua ne apprendevo l’aroma, e i suoi mugolii levarsi
nell’aria. Non avrei mai immaginato di trovarmi così a mio agio con un
pene in bocca… il suo per giunta! Ora mi sembrava la cosa più naturale
del mondo, non era affatto una cosa sconveniente tenere il pene d’un
altro in bocca. Sarei stato per ore ed ore, forse notti, a
succhiarglielo, con quell’aroma inebriante che mi dava la carica. Oramai
mi sentivo in unicum sensoriale con lui: più forte succhiavo, più forte
lui godeva e più cresceva la mia voglia di succhiarlo ancora. Non
sapevo come sarebbe stato il gusto del seme, ma in quel momento l’idea
di bere il suo succo acerbo mi garbava: …due, tre colpi di lingua ancora
e la mia gola s’inondò del suo fluido liquoroso; non era buono, ma non
sarebbe stato nemmeno definirlo disgustoso, mi abituai subito a
quell’aroma pieno, quasi salato.
Ormai era completamente venuto,
sentivo che non ne aveva più, ma non riuscivo ugualmente a lasciarlo, mi
piaceva troppo averlo in bocca, il sapore mi eccitava, e poi lo sentivo
ancora godere: s’agitava tuttora ad ogni passaggio di lingua, il corpo
si percuoteva in infiniti spasmi di piacere, l’irrefrenabile frenesia di
godimento tramutava i suoi gemiti in irreprimibili versetti di letizia.
Fin quando le sue reazioni non si affievolirono anch’esse; così lo
sfilai di malavoglia, mirandolo quel membro, prima vigoroso, che stava
perdendo di rigidezza. Ripulii con la lingua gli ultimi resti di piacere
intorno alla cappella, dandogli ancora qualche senso di godimento.
Mi
sentivo soddisfatto, come liberato, mi faceva tenerezza ora osservare
il volto di Robertino ancora pervaso dalla beatitudine dell’orgasmo; lo
sentivo vicino, come più mio, ora che parte di lui era dentro di me. Mi
distesi al suo fianco sussurrandogli di rilassarsi, non volevo rovinare
il suo stato di torpore, così lo ricomposi io prima di ricoprirci con le
lenzuola.
L’ora era tarda e una lieve brezza entrava nella stanza,
di quelle che ti conciliano il sonno e aggradano il lieve tepore d’un
tenero abbraccio; non mi andava di chiuderla, così abbracciai Roberto in
cerca di quel calore che ci necessitava. In quell’istante, in quel
tenero abbraccio, il suo morbido corpicino mi diede un’incredibile
emozione di calma e piacere.
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