26 agosto 2019

Roller skaters

Ero già pronto per uscire, inforcare la bici, e svolgere quelle piccole commissioni che i miei mi avevano simpaticamente lasciato per impegnare il pomeriggio tra un compito e l’altro: una capatina al supermercato, un OM per mio padre, e in fine qualcosina per me; quando il campanello suonò. Chi poteva mai essere a quest’ora non presta né tarda, ma comunque insolita per un’improvvisata? Spostai la tenda, e un caschetto blu scorreva avanti e indietro dietro la siepe, e sotto l’inconfondibile faccia di Luca. Ma che voleva? Era già venuto ieri... e poi dov’era il suo scooter? in più c’era qualcosa d’insolito, non solo nel suo caschetto a calotta, e in quel moto irreale, ma in lui rispetto all’ambiente circostante, che non riuscivo a cogliere. Dal suo sguardo furbetto voleva senz’altro entrare, ma io avevo due possibilità: lascialo entrare e perdere altro tempo, o farlo aspettare e sbattergli in faccia, da dietro la cancellata, che io non avevo tempo per lui, così imparava anche l’inopportunità di presentarsi inatteso. Scelsi la seconda, indicandogli il cancello, e subito vi si diresse, a una velocità incredibile. Ma che stava succedendo?



Portando la bici lungo il vialetto, mi chiedevo come facesse quel primino a scivolare da una parte all’altra come portato da un nastro trasportatore; finché non comparve tutt’intero.
– Ah, ecco come fai! Mi sembravi più alto… non sapevo ci avessi quei così...
– Belli! vero?
– Beh, insomma... mi sembrano un po’ vecchiotti!
– Eh... me li ha regalati mio cugino perché lui non li usa più! Quindi non sono nuovi... – aveva ai piedi un paio di roller e anche tutte le protezioni: guanti, casco, ginocchiere, con le plastiche graffiate e opacizzate dal tempo.
– Ma è quel famoso cugino...
– Sì, lui... – quello famoso che gli aveva fatto “tirocinio” di sega. Non so perché, ma a quel ricordo provai come un certo senso di fastidio: anche se mi aveva detto che l’aveva soltanto iniziato alle seghe, e quindi non gliel’avesse toccato – cosa che io consideravo soltanto un mio privilegio –, il fatto che qualcuno ci fosse andato vicino, mi dava fastidio!
– Ma che ci fai qui?
– Così...: – fece spallucce: – non avevo nulla da fare, così sono venuto a trovarti... – ah, ero contento di essere soltanto per lui un ripiego. – E poi… avevo voglia d’usarli! – mi ammiccò con l’occhiolino. Sarà! ma io avevo l’impressione che fosse venuto più per “venire”, che per venirmi a trovare…, mentre fissavo il suo pacco oggi più pronunciato che mai. Poi guardai i suoi roller pensando a quanti metri avessero percorso per arrivar a casa mia, e mi balenò un cattivo pensiero.
– Scusa, ma… che strada hai fatto? Perché non è che casa mia e la tua siano così vicine...
– La alta! – ammise tranquillamente.
– Cosa! ...ma sei matto! Con tutte quelle macchine... – alzai la voce sconcertato per il pericolo che aveva corso tanto incoscientemente.
– E che strada avrei dovuto fare? È la più corta!
– Ma cazzo! Dico: con tutte le basse che ci sono, tu fai la alta con quei così! – l’idea che avesse rischiato la vita mi faceva infuriare: come un capolavoro distrutto, un monumento vandalizzati, o un paesaggio deturpato, era una cosa che mi faceva trasalire; il Bello ha una dimensione tutta a sé, è un bene comune: non è nostro, non ci appartiene! così lui, parimenti, non poteva di disporre liberamente di sé, se questo significava privare – anche solo rischiare – l’umanità della sua presenza.
– Allora… la finisci! – mi zittò, impermeabile alle mie ragioni. – Piuttosto, come mai esci? – aggiunse con malizia.
– Che c’è di strano? Devo andare a fare delle cose.
– Strano, pensavo che tu stessi sempre a fare i compiti...
– No, anzi..., è che faccio apposta ad accumularli per quando vieni tu!
– Stronzo! – mi replicò scherzosamente.
– Dai, che devo andare... mi accompagni?
– Sì! – e mi fece cenno di spostare il braccio dal manubrio.
– Ma che vuoi...?
– Fammi salire... – non capii – Fammi salire sulla canna!
– Ti faccio... – “salire su cosa so io!”: mi censurai. – Tu hai capito male, bello! Hai le gambine...? sei venuto fin qui con quei cosi...? e allora ci vieni anche là! Dai, che andiamo! Se vuoi ti do un tiro...

***

Provavo quasi vergogna con quel primino a rotelle: guardato da tutti i clienti del ferramenta, mentre avanzava fragorosamente con quei pattini, sconvolgendo la quiete relativa del negozio; poi mi si ficcò di fianco impicciandosi degli affari miei. Il commesso lo guardava stranito, sembrando chiedersi chi fosse quel forestiero: fors’era il caso di levar le tende prima di far troppe figuracce.

Penultima fermata al supermercato. A piedi tra le corsie, senza carrello, ma con due braccia in più per tenere quelle quattro cose. Ci fermammo in fila alle casse, con Luca che sfoggiava il suo sfolgorante sorriso e le vecchine indignate per il suo look extremely street; ma a lui non importava: solo lui, io e la cassiera, tutto il resto era terra bruciata. Poi, giunti al nostro turno, eccolo comparire un portafoglio con Goku, Gohan e Vegeta SSJ stampati sopra.
– Ma che è...?
– Il mio portafoglio! Bello, vero?
– Eeeh, come no! Ma qualcosa di più dignitoso, no? – e sfoggiai il mio marrone, in “Vera pelle” (stampato sopra), compro alla bancarella d’un marocchino; ma l’importante era fare bella figura, e demarcare la differenza di stile – e quindi d’età! – fra me e lui.
– Beh, allora devi vedere il poster in camera mia... – La camera d’un adolescente è un po’ lo specchio stereotipato della sua personalità, e io cercavo d’immaginarmela la sua: come potesse essere per rispecchiare la sua travolgente personalità. La mia era piuttosto spoglia, priva di fronzoli, ma non quadrata o ordinaria: è che mi dava noia il dover perdere tempo ad abbellirla: in fondo, la usavo solo per dormire o farmici le seghe; che cosa cacchio avrei dovuto metterci, la sua gigantografia?
– Mi piacerebbe vedere camera tua, sai...
– Eh! anche a me! Ma tu non ci vieni mai da me! – lasciò intendere che glissavo sempre ogni volta che si parlava di andare da lui: ma non lo facevo per cipiglio snob, ma perché quello era il suo regno, e secondo i nostri accordi avrebbe comandato lui, e questo mi terrorizzava.

– Dove andiamo adesso? – mi chiese fuori dal negozio.
– Adesso vedi! – non volevo dirgli che saremmo andati in palestra, volevo che lo scoprisse da solo. Non so perché, ma l’affrontare quella realtà mi faceva già sentire grande, forse sarà perché sentivo altri ragazzi che già la frequentavano parlare di un mondo vissuto, di patente, lavoro, di uscite in discoteca, di bevute, ragazze, conquiste,… Inoltre, in quel momento, mi serviva anche per rimarcare la differenza d’età fra me e lui: per la quale lui neanche solo poteva pensare di avvicinarsi a dei pesi, mentre io avevo già ottenuto il permesso dai miei.

Appena arrivati, Luca snocciolò l’ennesima gomma appena comprata al supermercato, fissando l’insegna. Le porte scorrevoli mi si aprirono davanti come se qualcuno mi stese dando il benvenuto, e intanto quel primino mi seguiva rumorosamente con quei cosi ai piedi, nel goffo tentativo di camminare, anziché pattinare.
Dal bancone alla nostra destra, una signorina ci saluta, rivolgendosi direttamente a me e ignorando completamene quel bimbetto alle mie spalle, che intanto si studiava il posto.
– Giorno, vorrei avere delle informazioni sui vostri corsi, e i costi – presentarsi bene è come dare un bel biglietto da visita, mi dicevano i miei.
La signora mi sorride e mi apre un opuscolo davanti: – Beh, dipende da che cosa vuoi fare? – È alta, mora, secondo me sulla trentina, con un fisico atletico, contenuto in una tenuta aderente che lasciava intuire tutti gli anni di sforzo teso a quell’unico risultato fisico e salutista, nonché di immagine per la palestra. Intanto Luca era come un fantasma. – Abbiamo diverse offerte: la palestra, naturalmente; poi ci sono i servizi aggiuntivi: sauna, lampade, docce solari, massaggi; o i corsi di ballo, latinoamericani o moderi, di aerobica, stretching..., e volendo si può sceglierne uno o di più, come preferisci. Vedi? – Io guardo. – Dipende da che cosa vuoi fare..., e quindi il prezzo! – Mi sentivo un po’ disorientato di fronte a tutta quell’offerta: pensavo che palestra significasse principalmente far pesi: i muscoli, insomma! La signora mi guarda, e sorride al mio tentennamento, poi mi mostra un foglietto con un prospetto riassuntivo: – Vedi, generalmente i ragazzi, come te, fanno bodybuilding, alcuni anche le lampade, o magari arti marziali... – continuò a spiegandomi degli abbonamenti: tri- o semestrali, e l’annuale ovviamente, e di come quest’ultimo convenissi di più; e dei costi accessori per lampade e corsi, alcuni, volendo, già compresi nell’annuale, altri, invece, con una piccola aggiunta, a seconda del corso o della frequenza.
Dopo le spiegazioni mi ero rassegnato: avevo già intuito il funzionamento dei corsi; ma a me, francamente, interessava solo far palestra, o almeno così credevo perché ora non sapevo più nemmeno che parola pronunciare, visto che lei non aveva mai nominato i pesi e la parola “bodybuilding” mi suonava pretenziosa scandita davanti a Luca.
– Fate anche arti marziali? – saltò su lui.
– Sì! sia per adulti che per ragazzi!
– E quali?
– Karate, Judo... se volete vi mostro la palestra e dove si tengono i corsi? – parlò al plurale, ma guardava soltanto lui: mi sentivo già sorpassato sulla destra da un quattordicenne!
– Sì! – rispose lui per entrambi, mentre io mi limitai mestamente ad annuire.
Li seguii. Era lui ad interloquire, e, perché no? magari anche a correggerla quando ella sbagliava: ma che ne poteva saperne lei o fregargliene della sua terminologia che era una sportiva e mica un’artista marziale? Ma intanto sorrideva.
Alla fine ce n’andammo, dopo aver lasciato i miei recapiti per futuri contatti.
– Però, dai..., non è male...! – mi disse, come se mi stesse dando una pacca sulla spalla.
– Mah... adesso vedo, poi deciderò...
– Senti ma perché non viene a vedere da me: dove faccio Aikido. Magari... anzi, vieni quando faccio una lezione...
– Sì, ma io voglio fare palestra… pesi!
– Lo so, ma da me mica fanno solo arti marziali! È una palestra come questa! Già che ci sei potresti anche vedere quello che faccio io, e piacerti: non lo puoi sapere se non provi... – ecco, ci mancava solo che si mettesse a parlare come mio padre... – e poi, non per dire, ma secondo me costa pure meno! – Ma che cazzo! non mi andava di farmi bagnare il naso da questo mezzo bimbetto! E va bene, sarei andato una volta nella sua palestra e a vederlo mentre faceva le sue arti marziali: volevo proprio vedere in che cosa consistevano quelle quattro messe insegnate ad un branco di ragazzini.

Ripresi a trascinarlo, e subito cominciò ad ululare aggrappato al portapacchi della mia bici, invitandomi ad andare sempre più forte. Allungai il giro, e intanto continuavo a pensare al suo inaspettato arrivo: possibile che non avesse ancora tentato qualcosa di sessuale? magari aggrappandosi al mio cazzo, con la scusa di farsi trascinare? Chissà, forse era realmente venuto soltanto a trovarmi, forse per lui rappresentavo qualcosa in più di un semplice trastullo... però, in quel momento, mi sarebbe piaciuto trainarlo nudo per l’uccello, sperminando per tutto il paese.

***

– Dai, Luca entra, che poi ti accompagno con lo scooter! – non potevo lasciarlo andare via da solo: senza di me avrebbe senz’altro rifatto la provinciale, e io non volevo.
– Oh, finalmente te lo vedo... – mi disse mentre aprivo il garage. Non capivo: sembrava un doppio senso, ma il tono non era per nulla allusivo, e così lo guardai. – Lo scooter! – affermò: – finalmente te lo rivedo di giorno: con tutte le volte che ti ho chiesto di fare un giro, l’unica volta che siamo usciti motorizzati è stato venerdì scorso! – Non avevo comunque capito il motivo di questa sua uscita: ma ecco che, secondo me, la reale motivazione della sua visita stava emergendo.
Tirai su la saracinesca, e un raggio di sole proiettò le nostre ombre nel pulviscolo sospeso, disegnandoci tra i colori amarantini del tramonto come due sagome che si compenetravano: la sua più buffa e arrotonda, per tutti quei cosi attaccati alla sua figura, e la mia più lunga e slanciata. Sentii il bisogno di riguardarlo come per ricordarmene la bellezza: – Ho sete, – mi disse: – vengo su da te!
– No, con quei cosi… mia madre ha appena dato la cera, se mi segni il pavimento… mi ammazza! Te lo porto io.

Mentre riempivo il bicchiere d’acqua, pensavo a Luca di sotto: a quanto sarebbe stato bello se per ringraziarmi si fosse fatto trovare nudo, o almeno con l’uccello di fuori, sulla seduta del mio motorino; non sapevo cos’erano, ma non riuscivo a fermare quei filmini nella mia mente. Quando scesi, aprii piano la porta, quasi per sbirciare se il mio desiderio non si fosse per caso realizzato: ma, vedendone l’ombra, niente...
– To', prendi!
– Grazie! – mi disse, bevendo d’un sorso mezzo bicchiere; ma mentre presi il casco lo sentii ridire: – Oh... finalmente lo usi, non te lo vedo mai usare! – ma allora si stava prendendo gioco di me! della mia povera psiche! Gli tolsi il bicchiere di mano, fissandolo negli occhi per vedere se con quel contatto riuscissi ad avere una lettura più veritiera delle sue intenzioni: ma il suo sguardo era sincero. Possibile, cazzo! che quel giorno quel primino fosse venuto soltanto per trovarmi? Avevo già pronto tutto: bastava solo che accendessi il motorino e saremmo partiti; e lui non aveva ancora tentato alcunché d’erotico! Uffa! Fa lo stesso: se non ne aveva (stranamente) voglia lui; ne avevo io!
Posai il casco, e chiesi a Luca di farsi da parte verso il muro; mentre lo raggiunsi, camuffai le mie intenzioni, concentrandomi sui roller. – Cosa vuoi vedere? – mi chiese ingenuamente; possibile che non avesse ancora capito!?
– Niente! – avanzai: – solo questo! – Tuc! batté il casco contro il muro, mentre lo premetti con l’avambraccio sopra il petto, e m’intrufolai nella sua patta. Il biondino sorrise, mentre parte di lui prendeva già parte attiva al gioco. – A sì... – gli dissi, tirandoglielo fuori per masturbarlo in risposta al suo sorrisetto. Pian piano mi avvicinai fin dove il casco me lo permise, fino a farci toccare i nasi, e ridacchiammo. Ogni tanto fissavo il suo giocondo sorriso e ogni altro il suo grosso pennone, che oggi non mi bastava mai. Mi sembrava così saldo e profondamente inradicato nel suo corpo da poterlo mettere alla prova: – Che dici: facciamo una prova di trazione? – Lo afferrai saldo alla base, e tirai. Luca trovò un nuovo equilibrio, facendosi all’indietro; e un metro, due metri, tre metri: la prova era superata; ma non la mia fame!
Lo ribloccai nuovamente alla parete e mi abbassai per farlo godere: quello stupro simulato mi galvanizzava: lo scappellai direttamente succhiando. – Ah! fai piano! – mi gridò in un misto di eccitazione e dolore. – Scusa! – gli farfugliai qualcosa con la sua bega ancora in bocca. Ogni tanto lo affondavo in gola per sentirne tutta la taglia, e poi tornavo in punta per sentirlo gemere ancora. Portò le mani sulla mia nuca. Avevo già sognato con lui quella posizione: lui in piedi e io in ginocchio: la trovavo perversamente eccitante. Mi sfiziava e non mi sarei fermato fino a cavarne tutto il suo seme bianco.
Quando venne, fu un’autentica gioia accoglierlo nel mio cavo orale: da quando eravamo entrati nel mio garage, non chiedevo altro. Bevvi il resto della sua acqua per sciacquarmi la bocca, mentre lui si ricomponeva.
Si stava portando al mio motore, quando lo raggiunsi e lo fermai, mettendogli un braccio attorno al collo: – Ehm... e tu non mi fai niente!? –. Mi prese la mano con l’opposta, e disse: – Fare cosa? con ieri siamo pari! – e si tolse il mio braccio di dosso come una scarpa; con due parole mi aveva spiazzato: l’adoravo! vuol dire che mi sarei arrangiato da solo... Ora, però, dovevamo andare.
Appena fuori dal cancello, ripretese di salire: ma non ci stavo a farmi sequestrare il motorino per la sua bella faccina… Così lo rimorchiai fino alle porte del paese. Per quella strada di campagna non ci avrebbe beccati nessuno: ora poteva salire!
– Dai, sali! – Il piccoletto alzò la gamba per scavalcare, ma mi sbatté col ginocchio contro le carene. – Alt! Fermati! – lo fermai in tempo. Luca mi guardò come sentendosi in colpa per qualcosa che non aveva ancora fatto. Intanto scesi: – Dai, ora sali e fatti indietro!
– Beh, questa poi non l’ho capita...
– Sei troppo imbranato con quei cosi, ho paura che mi smicchi il motorino!
– Ehhh! ti smicco il motorino... – mi fece il verso: – ma se sono più agile di te! – sostenne, e salì sulla sella facendomi ben spazio per farmi risalire.
– Tienti forte! – gli battei col casco all’indietro sul suo per indicargli la partenza.

Un’altra strada, un’altra storia… ma ancora noi due insieme, s’un motorino, per una via di campagna. L’aria frizzante entrava sotto i vestiti; ma in me era fermata dal blocco del suo caloroso abbraccio. Lui, invece, poverino, non aveva neanche i vestiti da motorino: così che andavo piano piano, tanto che paradossalmente avrebbe fatto prima ad andare sui suoi roller; ma ci saremmo persi entrambi quel meraviglioso abbraccio.
Purtroppo giungemmo al suo paese: dopo quanto non importava... era comunque troppo presto! Lo sentii slacciarsi quasi con rammarico, mentre sulla mia schiena sentivo ancora l’impronta del suo corpicino. Piano percorremmo le vie, quasi a voler assaporare fino all’ultimo istante di quella giornata passata insieme. E poi, com’era maestosa quella villa di giorno, anche se nella luce opaca del tramonto. Luca mi guardò, quasi per ringraziarmi di quella giornata passata fuori programma: ma se la bocca sorrideva, gli occhi piangevano.
Con lunghi sospiri, suonò il campanello, dandomi un’ultima occhiata, come chi ti vuol ricordare prima d’un lungo addio infino all’indomani mattino: com’era dolce, oltreché melodrammatico; ma l’aria mutò rapidamente coll’apparire di sua madre sull’uscio di casa. Avanzò nervosamente e con uno sguardo così serio da annichilire l’innata spensieratezza di Luca.
– Luca! dove sei stato?! – vibrò con tono altisonante
– Da Alle... – era la prima volta che lo vedevo intimorito.
– E che strada hai fatto?
– La… la…
– Non mentirmi! La provinciale, t’ho visto mentre la percorrevi!
– M... – balbettò.
– Niente scuse! Fila dentro! Che io e te adesso facciamo i conti! – aprii il cancello. Luca entrò, poi cercò con lo sguardo il mio, indugiando un attimo: – Fila! – ribadì. Forse cercava il mio soccorso, ma io che cosa avrei potuto dirle: anche perché c’era ben poco da dire. – Alessandro, – mi disse: – ti ringrazio per averlo accompagnato a casa, ma adesso è meglio che vai! Non ti preoccupare, vi rivedrete domani mattina.
Conoscevo bene quel tono di voce, e se mi ricordavo bene corrispondeva a una bella romanzina.

***

Giunto a casa, ripensai allo sguardo severo della madre di Luca e al suo intimorito, poi vidi un alone bluastro sulla ruvida parete, proprio all’altezza della sua zucca: quello del suo casco quando l’avevo spinto. Lì avevo fatto a lui il mio ultimo pompino. Mi appoggiai col casco; sentivo il suo respiro… sua madre… Luca. Mi sentivo eccitato. Il mio uccello, iniziai a masturbarmi. Con quello che era appena successo, sentivo che era sbagliato: che era immorale! Ma il mio uccello; il suo uccello! Il mio casco appannato. Luca! Luca! e venni.
Lasciai, sotto il segnetto, i quattro miei schizzi, percolanti. Non li puliti: sarebbero rimasti come una macchia, come un graffito, un monumento; per noi due, e per i posteri.

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