Seggo
accanto al finestrino, guardando fuori per non incrociare lo sguardo dimesso di
quel coso siedutosimi vicino: forse è un outsider o forse un primino, non so,
ma per oggi poco m’importa, saranno gli altri, presto, a fargli capire le regole
del pulmino e i comportamenti da seguire. La corriera parte, non farà ulteriori
fermate, la prossima è il capolinea (pare anche della mia vita) nel piazzale
della scuola, e intanto ripasso quei nove mesi ancora da venire, arrivati tutti
d’un colpo; ma oggi che giorno: il primo di Terza…! Non so cosa m’attende, so
solo che vorrei già fosse finito.
Si sdoppia
il sole obliquo nei finestroni alti della scuola, anche oggi farà bello, e come
sempre mi sono svestito poco; davanti alla vetrata il solito addensarsi di
studentelli, che per sembrare migliori si fionderanno dentro al primo
campanello. Suona la campanella, da fuori l’istituto, simile alla sveglia di
casa, ma con suono men dolce di quella, e solo i primini e gli sfigati entrano
per primi. Io invece mi attarderò, posso ancora attendere, in fondo è solo la
prima delle tre, starò in attesa di qualcuno con cui parlare. Scruto tra la
selva di “cavezze” in cerca di qualche capigliatura conosciuta, ma non è facile
quest’anno, siamo più di mezzo migliaio allo scientifico, negli ultimi anni
siamo cresciuti parecchio, e tra le mode e le teste nuove è diventato una vera
babele di acconciature; mi guardo intorno, circondato da anonime chiome più o
meno sconosciute, finché finalmente una voce mi saluta.
Un «ciao»
proviene da dietro, troppo vicino per non essere rivolto a me. È una voce non
nuova, ma nemmeno tra quelle che m’attendevo d’udire: compagni di classe,
docenti, forse il preside, perfino i bidelli, alle loro voci ero abituato; ma a
quella voce, proprio, non riuscivo a dare un volto. Mi voltai interessato; un
ragazzetto più basso di me, forse primino, sostava ritto con ai piedi scarpette
grigie da ginnastica, calzini corti, pantaloni rossi a tre quarti di gamba, una
maglietta verdognola con un cerchio decorativo al centro, e il volto sorridente
semicoperto da un capellino della Kappa; ma i lineamenti… quei lineamenti dal
mento alla punta del naso erano i suoi…
– Lu… Luca… – balbettai per lo
sconcerto il suo nome – quasi un gesto apotropaico – al posto del saluto,
vedendomi così quei nove mesi sconvolgersi davanti ai miei occhi.
– Allora…
– …ciao! – risposi, finalmente
pronunciando il vocabolo giusto. Lui era lì davanti a me; non credevo ai miei
occhi, e non sapevo neanche se credere a un sogno o a un incubo di un sonno mai
finito.
– …ce l’hai allora il cellulare? – mi
disse, come continuando una conversazione idealmente interrotta la sera prima,
ma io ancora impietrito per il turbamento, non riuscivo a cavare parole sensate:
la sintassi si accavallava, il pensiero s’intorcinava nell’ammucchiarsi confuso
di frasi sconnesse; farfugliai qualcosa, quando una sagoma invadente irruppe
nel mio campo visivo.
– E chi è sto mo-scar-di-no, qui?
– disse Sonia, sbattendogli una mano sul cappellino, mentre lui poverino
strizzò gli occhi per il colpo inatteso.
– …è Luca – risposi frettolosamente
prima che lui potesse entrare nel discorso.
– Sì, ma chi è?
– Un amico…
– Chi? Lui… – disse sorpresa – ma se li odi. Quest’estate dev’averti proprio
cambiato! – Poi lo mosse come un burattino dinoccolato, afferrandolo per
la nuca e voltandogli la testa: – Beh!
Almeno c’ha la faccia da sveglio! – riprese – Ciao, ci vediamo dentro.
– Ciao – le risposi, mentre si
incamminò voltandosi verso Luca.
– E ciao anche a te, furbetto! E stai attento a quel
tuo amico lì, che è uno che si caccia nei guai! – sorrise.
Era proprio
lei, non era cambiata affatto, quando parlava ti prendeva sempre in
contropiede; non ho mai compreso come una tipa così brillante, potesse
rivolgere la parola a un rincoglionito come me.
Poi guardai Luca,
ora era lui a essere sconvolto per l’incontro, in effetti l’irruenza di Sonia
faceva questo effetto a chi non la conosceva, invece a me, averla incontrata,
aveva tolto ogni disagio: quella figura da pinocchietto aveva smitizzato quel
soggettino inatteso e ora potevo guardarlo con tranquillità, come un compagno
la cui presenza nella mia scuola fosse scontata da tempo.
– Dai entriamo, ci beccheremo durante
l’assemblea.
Per noi del
triennio era il primo giorno, mentre per Luca e i suoi coetanei era già il
terzo, la segreteria aspettava, come di consueto, che i più piccoli si fossero
ambientati, prima di riunire, dopo la seconda ora, seicento ragazzi di tutte
l’età nell’androne principale della scuola.
Zaini,
studenti, giacche, tutto alla rinfusa, come sempre alle assemblee d’istituto il
caos regnava sovrano, a turno avrebbero parlato, preside, professori e in fine
i rappresentanti d’istituto o coloro che ambivano candidarsi quell’anno; però
nessuno sarebbe più stato ad ascoltarli dopo il primo quarto d’ora, per non
parlarne dopo l’intervallo, quando l’assemblea avrebbe assunto i toni di un
vero bivacco. Ognuno era congiunto col suo gruppo d’amici, e anch’io avevo il
mio, fatto di quei soliti tre compagni, gli unici della classe con cui andavo
veramente d’accordo. Traguardavo tra la folla in cerca di Luca, l’idea di lui
in mezzo a quel carnaio m’agitava: mi immaginavo di vedermelo sbucare fuori,
come stamattina, da chissà quale dove e che poi si mettesse a parlare con loro,
cosa che volevo assolutamente evitare; ma in più d’un’ora d’assemblea non lo
vidi; l’infruttuosa ricerca però mi valse il rincontro di Sonia. Lei era mia
amica, anzi la mia migliore amica, ci conoscevamo praticamente da sempre, fin
dall’elementari, forse fin dalla più tenera infanzia; quand’ero con lei mi
dimenticavo del mondo, tutti me lo rimproveravano, alcuni ipotizzavano che ci
fosse del tenero, ma tra noi non poteva esserci nulla, ci conoscevano da troppo
tempo perché potesse esserci qualcosa tra noi due, era quasi come una cugina; eppure
a certi dava fastidio che una ragazza del genere rivolgesse la parola a me e
non a loro. Sonia era bella, sarebbe rientrata fra le figheire della scuola, se non fosse stato per il suo carattere impetuoso
e indipendente, eppure aveva il suo bel seguito di contendenti, anche nella mia
classe: gente che si mordeva la lingua al suo passare, altri si mettevano in bella
mostra, ma lei niente, passava tutti e salutava solo me, soltanto me,
infrangendo frotte di cuori di quei livorosi che mal sopportavano che uno
sfigato avesse tali confidenze con la “loro” donna. Tutti quanti, però,
avrebbero fatto meglio a mettersi il cuore in pace, poiché si vociferava, già da
prima dell’estate, stesse con uno del Quarto al classico; una sorta di bestia
mitica: alto, bruno e cheguevarianamente barbato, militante nell’associazione
studentesca. Tornato dal mio tête-à-tête informale con lei, mi ero
finalmente dimenticato di Luca, quando scoppiò l’intervallo, ed era ora di
precipitarsi al banco della Bezzi. I panini della Bezzi non erano buoni, non
erano neanche cattivi, di più: orrendi, ma noi cresciuti col fast food eravamo
preparati pure per quello; gli ingredienti erano segreti e circondati da un
alone di mistero: c’è chi ipotizzava di fluidi corporei alieni, chi il riciclo
di salme di primino, chi invece azzardava un uso promiscuo con la cucina del
cinese vicino, i miti del nostro istituto erano tanti e la Bezzi n’era parte
integrante. Ero ai margini della calca ad attendere il panino, quando Luigi mi toccò
alla spalla, segnandomi con faccia sdegnata un biondino che gli faceva cenno di
chiamarmi.
– Ah sì, lo conosco!
– E chi è? – domanda imbarazzante.
– Un mio cugino… – m’inventai una
risposta di fortuna.
– Dai chiamalo che lo conosciamo…
– No, adesso sento cosa vuole e lo caccio via…
anzi no, forse non torno.
Presi Luca
in disparte; quando la campanella suonò la fine dell’intervallo, il tumulto
riconfluì nuovamente nella sala centrale per ascoltare gli ultimi oratori: i
pretendenti alla carica di rappresentante. Dietro la cattedra si accomodarono
tre ragazzini impacciati e intimoriti di fronte a quella immensa distesa di occhi
che li fissava; non avevo mai visto né sentito parlare di rappresentanti di
prima, ci voleva un gran coraggio, ma anche, forse, una totale assenza di senso
del ridicolo. Quello al centro prese il microfono, il chiacchiericcio della
piazza s’alzò prepotente, poi disse: – Noi…
noi abbiamo deciso di candidarci, perché anche noi di prima abbiamo dir… –
bastò una sola sillaba che scoppiò un putiferio di fischi, il preside accorse
in loro soccorso contro il vociare invadente che si fece coro di beffe e risa
verso quei tre mocciosetti ancora ignari che la scuola non è luogo di
democrazia.
– Bah! Qui stiamo solo a perder tempo! Vieni,
che andiamo da un’altra parte…
– Già! – disse Luca, scrollando le
spalle quasi a biasimare per quei tre suoi coetanei, che in fondo avevano mostrato
tanto coraggio.
– Ti faccio fare il giro della scuola, anche
se sei qui da due giorni, certo non l’hai vista tutta… – lo portai a
zonzo per i corridoi dell’istituto: non sapevo dove andare. Dovevo indagare
sulla sua presenza: perché era nella mia scuola? Non doveva essere in
Inghilterra? Cosa voleva? Quell’estate, in fondo, era stato soltanto un fortuito
episodio! Non sapevo, però, come rompere il ghiaccio, la sua improvvisa
presenza mi aveva scombussolato: mi affascinava, ma allo stesso tempo
infastidiva, soprattutto mi turbava non sapere le sue aspettative, le sue
prossime mosse, dopo quel nostro trascorso, accaduto in vacanza. Notavo un
sorrisino di compiacimento sul suo volto per il mio disorientamento;
sovrappensiero su come indagarlo, mi fermavo indeciso a ogni incrocio senza
sapere se volerlo portare a destra o a sinistra, allora lui prendeva
l’iniziativa e io mi accodavo: lì da due giorni appena, ed era più padrone di
me vi vivevo da due anni. Era proprio lui, non era un incubo né un sogno; era
proprio come lo ricordavo: quel suo fare gentile ma deciso, quel suo essere
sempre padrone di sé, che suscitava in me tanta ammirazione e incanto per
quella figurina minuta ma carismatica, anche se la sua malia sembrava
ridimensionata rispetto a quest’estate nell’atmosfera cupa e semibuia
dell’istituto, dove in fondo eravamo entrambi due semplici studenti.
– … ti sei tagliato i capelli?
– Sì, mia mamma ha insistito, ma secondo me
stavo meglio prima!
– No, dai, stai bene anche adesso! – sei stupendo come sempre, avrei voluto dirgli.
– Ma… dimmi, non dovevi andare in
Inghilterra? Come mai sei a scuola qua? – Così mi raccontò dei suoi zii
e della malattia di suo cugino che non potevano più ospitarlo, tutto questo,
però, ancora non spiegava perché mai, fra tutti gli istituti, avesse scelto
proprio il mio; il suo tergiversare m’irritava. Intanto lo condussi al piano
superiore in cerca d’un’aula vuota dove poter parlare; non so se m’infastidisse
di più la sua faccia da santarellino o la sua impassibilità come se quell’estate
non fosse accaduto niente, come se la sua presenza nella mia stessa scuola non
avrebbe avuto per me altre conseguenze. Camminando riavvertii il suo fascino:
quel biondino al mio fianco, spacciato per un mio lontano cugino, non potevo
ignorarlo volente o nolente: suscitava in me forti e contrastanti emozioni,
ricordavo ancora le cose combinate quell’estate, quell’intesa impossibile che
mai in nessun altro avrei incontrato. Per togliermi dall’incantesimo, cercavo
mutamenti del suo aspetto esteriore per rendermelo meno attraente, ma né
l’altezza né il peso sembravano variati rispetto a un mese fa; anche di volto
era rimasto quello di sempre: quella bellezza armoniosa dai lineamenti delicati
e gentili di un visino imberbe e pulito da pubere fanciullino, uno sguardo
simpatico e accattivante, due occhi castani e accesi, solo il caschetto non era
quello d’allora: ora più corto, aveva perso quell’iride di sfumature che
andavano dal biondo più acceso a quello più cinerino, in ombra, ma il suo
fascino non era mutato.
Stavo
nuovamente cadendo sotto l’influsso della sua arcana malia, finché vidi quello
che cercavo: una porta socchiusa.
Noi due
dentro in quell’aula in penombra con l’uscio chiuso, faceva molto privé; ma con la porta serrai anche la
mia bocca sprofondando in un silenzio imbarazzante che si palpava nell’aria,
anche Luca si fece piccolo in quel clima d’imbarazzo, con la testa incastonata
fra le spalle e le mani in tasca.
– Così questa è la vostra aula dei computer
– disse rompendo l’indugio.
– Già, ne abbiamo più di venti: quelli là in
fondo sono i più nuovi, li hanno installati l’anno scorso.
E si incamminò
sul fondo dell’aula, sfumandosi nel buio della stanza. La memoria non poteva
fare a meno d’affollarsi di quell’immagini di lui e delle sue infinite qualità:
nella sua siluetta in penombra, me lo vedevo ancora in costume quel suo fisichino
sottile, d’armonica snellezza, che ancora non aveva conosciuto lo sviluppo
muscolare. Luca si sedette con un salto sul bancone vicino, proprio in mezzo a
due schermi; il balzo aveva sollevato la maglietta sopra la cinta, scoprendo
così la patta, e il crocicchio di pieghe rosse che evidenziava la sua già
risaputa vivacità peniena. Il mio occhio vi cadde sopra, poi, subito distolto,
incrociò lo sguardo di Luca in un rapido scambio d’occhiate; si accorse di
tutto, accennò un sorrisetto malizioso e il mio cruccio crebbe ancora, con lui
che continuava a giocare al gatto col topo con la verità: stavo impazzendo.
– Luca, – mi feci serio – veramente, perché sei venuto qui?
– Ma si può sapere cos’hai? Sembra quasi che
io ti dia fastidio? – disse con fare estremamente innocente. – Insomma, sei stato tu a parlarmene
quest’estate, e io sono venuto a vederla. Come ti ho già detto, mi è piaciuta e
poi ho pensato che avresti potuto darmi un aiuto coi compiti, tutto qua!
– Davvero?
– Sì, davvero! Perché che altro doveva
esserci?
Dopo quelle
parole invece di risollevarmi, rimasi deluso: in fondo ci speravo in qualcosa
di più; così un po’ imbarazzato, adesso per la figura barbina appena fatta coi
miei sospetti, gli dissi – Dai
andiamo! –, girandogli le spalle, ma Luca balzò giù dal bancone e mi
abbracciò da dietro, poggiandosi alla mia schiena. Avevo quasi dimenticato
quanto fosse bello essere abbracciati; quella parte di me prima delusa si sentì
subito rincuorata e avvertì il bisogno di ricambiare il gesto, così mi girai. Mammamia
quant’era bello stringere un altro essere umano sentendosi libero di
manifestare le proprie emozioni senza paura di essere giudicato, dentro di me
continuavo a ringraziarlo per aver scelto la mia scuola; non l’avrei più
lasciato, se delle grida di ragazzi, che correvano in corridoio, non avessero
rotto quell’atmosfera conciliatoria; ci lasciammo a malincuore coi nostri
sguardi che, incontrandosi, si giuravano che quella non sarebbe stata l’ultima
volta.
All’uscita
me lo trovai tutto sorridente ad attendermi, non capivo cosa volesse ancora, ma
insistette per portarmi a casa in macchina, dato che, in fondo, ero di strada.
Conobbi la madre, l’autista: una donna bella e distinta, che mi riferì di
conoscermi già dai racconti di Luca – certo che ne aveva fatto di affidamento
sul fatto di ritrovarmi in quella scuola! Arrivò perfino a propormi di farmi
accompagnare d’ora in poi a scuola da loro; la proposta era allettante: usare un
mezzo proprio al pubblico aveva l’indubbio vantaggio di alzarsi più tardi la
mattina e di rincasare prima, ma per quel mese avevo già l’abbonamento, e poi
avrei dovuto parlarne coi miei, che non gradivano che me ne approfittassi troppo
della generosità degli altri, dicevano. Quando scesi da quell’auto, sentendomi
più tranquillo, la situazione mi pareva più a portata di mano, speravo solo di
essere abbastanza abile per saperla gestire anche in futuro, mantenendone il
segreto.
Nei giorni
seguenti presentai Luca ai miei compagni, come mio cugino; era sveglio, e
comprese ed accettò subito quel ruolo per giustificare la sua presenza, se
voleva continuare a gironzolarmi intorno; i miei amici lo trovarono simpatico e
accettarono la sua presenza, visto che faceva di tutto pur di stare con quelli
più grandi di lui, essendo questo motivo di distinzione di fronte alla sua
classe. Dovevo però stare attento a che non diventasse troppo appiccicoso,
finora, per quella prima settimana, tutto si era manifestato come una semplice
amicizia, ma sapevo che ben presto sarebbe successo dell’altro.
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