1 giugno 2019

Primo giorno di scuola

Bibip… Bibip… Bibip… Bibip… Bibip… suona maledetta la sveglia col suo trillo elettronico fin dentro la mia testa, riecheggia per la stanza e mi desta. È una nuova giornata, è di nuovo mattina, ma oggi è diverso: è più presto. È arrivato settembre, e presto arriverà anche lei… È finita l’estate, quindi addio ai calzoncini corti, alle gite pomeridiane in motorino con gli amici, alle lunghe giornate, ai pomeriggi assolati, alle piscine serali, alle uscite domenicali, addio estate… oddio, è iniziata la scuola! Dal basso mia madre mi chiama: sono il solito pigrone che non vuole svegliarsi mai, ma se fra poco non sarò io a scendere, presto sarà lei a salire a sbrandarmi dal letto. Guardo fuori la finestra l’umore uggioso della giornata, ma so già che non durerà; odio questa stagione: è fresco la mattina presto, poi fa caldo quando esco se c'è il sole e poi di nuovo fresco quando questo va a dormire; non so mai cosa mettermi, mi vesto a strati, ma ho immancabilmente freddo quando fa fresco e sudo quando c’è il sole… non vedo l’ora che sia già primavera. Scendo assonnato, fo colazione svogliato e senza capire neanche cos’ho mangiato, mi ritrovo nel cortile con mia madre che chiude a doppia mandata il portone di casa – fosse per lei lo sprangherebbe pure! Come un dolce tedio è ricominciato il nostro solito tran tran; mi accompagna all’autostazione, anche lei in fondo deve andare al lavoro, per fortuna il suo mezzo parte prima, e così mi ritrovo solo circondato da facce di adolescenti: son tutti delle superiori, eccetto qualche outsider delle medie; ogni tanto becco qualche faccia nuova da primino, ne vedo molte quest’anno, sono coloro che non sanno ancora come va il mondo da queste parti: appena avvistano l’automezzo si accalcano infatti tutti nei posti sbagliati, così i primi a salire siamo noi, quelli del triennio, accaparrandoci i posti migliori.


Seggo accanto al finestrino, guardando fuori per non incrociare lo sguardo dimesso di quel coso siedutosimi vicino: forse è un outsider o forse un primino, non so, ma per oggi poco m’importa, saranno gli altri, presto, a fargli capire le regole del pulmino e i comportamenti da seguire. La corriera parte, non farà ulteriori fermate, la prossima è il capolinea (pare anche della mia vita) nel piazzale della scuola, e intanto ripasso quei nove mesi ancora da venire, arrivati tutti d’un colpo; ma oggi che giorno: il primo di Terza…! Non so cosa m’attende, so solo che vorrei già fosse finito.

Si sdoppia il sole obliquo nei finestroni alti della scuola, anche oggi farà bello, e come sempre mi sono svestito poco; davanti alla vetrata il solito addensarsi di studentelli, che per sembrare migliori si fionderanno dentro al primo campanello. Suona la campanella, da fuori l’istituto, simile alla sveglia di casa, ma con suono men dolce di quella, e solo i primini e gli sfigati entrano per primi. Io invece mi attarderò, posso ancora attendere, in fondo è solo la prima delle tre, starò in attesa di qualcuno con cui parlare. Scruto tra la selva di “cavezze” in cerca di qualche capigliatura conosciuta, ma non è facile quest’anno, siamo più di mezzo migliaio allo scientifico, negli ultimi anni siamo cresciuti parecchio, e tra le mode e le teste nuove è diventato una vera babele di acconciature; mi guardo intorno, circondato da anonime chiome più o meno sconosciute, finché finalmente una voce mi saluta.

Un «ciao» proviene da dietro, troppo vicino per non essere rivolto a me. È una voce non nuova, ma nemmeno tra quelle che m’attendevo d’udire: compagni di classe, docenti, forse il preside, perfino i bidelli, alle loro voci ero abituato; ma a quella voce, proprio, non riuscivo a dare un volto. Mi voltai interessato; un ragazzetto più basso di me, forse primino, sostava ritto con ai piedi scarpette grigie da ginnastica, calzini corti, pantaloni rossi a tre quarti di gamba, una maglietta verdognola con un cerchio decorativo al centro, e il volto sorridente semicoperto da un capellino della Kappa; ma i lineamenti… quei lineamenti dal mento alla punta del naso erano i suoi…
Lu… Luca… – balbettai per lo sconcerto il suo nome – quasi un gesto apotropaico – al posto del saluto, vedendomi così quei nove mesi sconvolgersi davanti ai miei occhi.
– Allora…
…ciao! – risposi, finalmente pronunciando il vocabolo giusto. Lui era lì davanti a me; non credevo ai miei occhi, e non sapevo neanche se credere a un sogno o a un incubo di un sonno mai finito.
…ce l’hai allora il cellulare? – mi disse, come continuando una conversazione idealmente interrotta la sera prima, ma io ancora impietrito per il turbamento, non riuscivo a cavare parole sensate: la sintassi si accavallava, il pensiero s’intorcinava nell’ammucchiarsi confuso di frasi sconnesse; farfugliai qualcosa, quando una sagoma invadente irruppe nel mio campo visivo.
E chi è sto mo-scar-di-no, qui? – disse Sonia, sbattendogli una mano sul cappellino, mentre lui poverino strizzò gli occhi per il colpo inatteso.
– …è Luca – risposi frettolosamente prima che lui potesse entrare nel discorso.
Sì, ma chi è?
Un amico…
– Chi? Lui… – disse sorpresa – ma se li odi. Quest’estate dev’averti proprio cambiato! – Poi lo mosse come un burattino dinoccolato, afferrandolo per la nuca e voltandogli la testa: – Beh! Almeno c’ha la faccia da sveglio! – riprese – Ciao, ci vediamo dentro.
Ciao – le risposi, mentre si incamminò voltandosi verso Luca.
– E ciao anche a te, furbetto! E stai attento a quel tuo amico lì, che è uno che si caccia nei guai! – sorrise.
Era proprio lei, non era cambiata affatto, quando parlava ti prendeva sempre in contropiede; non ho mai compreso come una tipa così brillante, potesse rivolgere la parola a un rincoglionito come me.
Poi guardai Luca, ora era lui a essere sconvolto per l’incontro, in effetti l’irruenza di Sonia faceva questo effetto a chi non la conosceva, invece a me, averla incontrata, aveva tolto ogni disagio: quella figura da pinocchietto aveva smitizzato quel soggettino inatteso e ora potevo guardarlo con tranquillità, come un compagno la cui presenza nella mia scuola fosse scontata da tempo.
– Dai entriamo, ci beccheremo durante l’assemblea.
Per noi del triennio era il primo giorno, mentre per Luca e i suoi coetanei era già il terzo, la segreteria aspettava, come di consueto, che i più piccoli si fossero ambientati, prima di riunire, dopo la seconda ora, seicento ragazzi di tutte l’età nell’androne principale della scuola.

Zaini, studenti, giacche, tutto alla rinfusa, come sempre alle assemblee d’istituto il caos regnava sovrano, a turno avrebbero parlato, preside, professori e in fine i rappresentanti d’istituto o coloro che ambivano candidarsi quell’anno; però nessuno sarebbe più stato ad ascoltarli dopo il primo quarto d’ora, per non parlarne dopo l’intervallo, quando l’assemblea avrebbe assunto i toni di un vero bivacco. Ognuno era congiunto col suo gruppo d’amici, e anch’io avevo il mio, fatto di quei soliti tre compagni, gli unici della classe con cui andavo veramente d’accordo. Traguardavo tra la folla in cerca di Luca, l’idea di lui in mezzo a quel carnaio m’agitava: mi immaginavo di vedermelo sbucare fuori, come stamattina, da chissà quale dove e che poi si mettesse a parlare con loro, cosa che volevo assolutamente evitare; ma in più d’un’ora d’assemblea non lo vidi; l’infruttuosa ricerca però mi valse il rincontro di Sonia. Lei era mia amica, anzi la mia migliore amica, ci conoscevamo praticamente da sempre, fin dall’elementari, forse fin dalla più tenera infanzia; quand’ero con lei mi dimenticavo del mondo, tutti me lo rimproveravano, alcuni ipotizzavano che ci fosse del tenero, ma tra noi non poteva esserci nulla, ci conoscevano da troppo tempo perché potesse esserci qualcosa tra noi due, era quasi come una cugina; eppure a certi dava fastidio che una ragazza del genere rivolgesse la parola a me e non a loro. Sonia era bella, sarebbe rientrata fra le figheire della scuola, se non fosse stato per il suo carattere impetuoso e indipendente, eppure aveva il suo bel seguito di contendenti, anche nella mia classe: gente che si mordeva la lingua al suo passare, altri si mettevano in bella mostra, ma lei niente, passava tutti e salutava solo me, soltanto me, infrangendo frotte di cuori di quei livorosi che mal sopportavano che uno sfigato avesse tali confidenze con la “loro” donna. Tutti quanti, però, avrebbero fatto meglio a mettersi il cuore in pace, poiché si vociferava, già da prima dell’estate, stesse con uno del Quarto al classico; una sorta di bestia mitica: alto, bruno e cheguevarianamente barbato, militante nell’associazione studentesca. Tornato dal mio tête-à-tête informale con lei, mi ero finalmente dimenticato di Luca, quando scoppiò l’intervallo, ed era ora di precipitarsi al banco della Bezzi. I panini della Bezzi non erano buoni, non erano neanche cattivi, di più: orrendi, ma noi cresciuti col fast food eravamo preparati pure per quello; gli ingredienti erano segreti e circondati da un alone di mistero: c’è chi ipotizzava di fluidi corporei alieni, chi il riciclo di salme di primino, chi invece azzardava un uso promiscuo con la cucina del cinese vicino, i miti del nostro istituto erano tanti e la Bezzi n’era parte integrante. Ero ai margini della calca ad attendere il panino, quando Luigi mi toccò alla spalla, segnandomi con faccia sdegnata un biondino che gli faceva cenno di chiamarmi.
Ah sì, lo conosco!
– E chi è? – domanda imbarazzante.
Un mio cugino… – m’inventai una risposta di fortuna.
Dai chiamalo che lo conosciamo…
No, adesso sento cosa vuole e lo caccio via… anzi no, forse non torno.
Presi Luca in disparte; quando la campanella suonò la fine dell’intervallo, il tumulto riconfluì nuovamente nella sala centrale per ascoltare gli ultimi oratori: i pretendenti alla carica di rappresentante. Dietro la cattedra si accomodarono tre ragazzini impacciati e intimoriti di fronte a quella immensa distesa di occhi che li fissava; non avevo mai visto né sentito parlare di rappresentanti di prima, ci voleva un gran coraggio, ma anche, forse, una totale assenza di senso del ridicolo. Quello al centro prese il microfono, il chiacchiericcio della piazza s’alzò prepotente, poi disse: – Noi… noi abbiamo deciso di candidarci, perché anche noi di prima abbiamo dir… – bastò una sola sillaba che scoppiò un putiferio di fischi, il preside accorse in loro soccorso contro il vociare invadente che si fece coro di beffe e risa verso quei tre mocciosetti ancora ignari che la scuola non è luogo di democrazia.
Bah! Qui stiamo solo a perder tempo! Vieni, che andiamo da un’altra parte…
Già! – disse Luca, scrollando le spalle quasi a biasimare per quei tre suoi coetanei, che in fondo avevano mostrato tanto coraggio.
Ti faccio fare il giro della scuola, anche se sei qui da due giorni, certo non l’hai vista tutta… – lo portai a zonzo per i corridoi dell’istituto: non sapevo dove andare. Dovevo indagare sulla sua presenza: perché era nella mia scuola? Non doveva essere in Inghilterra? Cosa voleva? Quell’estate, in fondo, era stato soltanto un fortuito episodio! Non sapevo, però, come rompere il ghiaccio, la sua improvvisa presenza mi aveva scombussolato: mi affascinava, ma allo stesso tempo infastidiva, soprattutto mi turbava non sapere le sue aspettative, le sue prossime mosse, dopo quel nostro trascorso, accaduto in vacanza. Notavo un sorrisino di compiacimento sul suo volto per il mio disorientamento; sovrappensiero su come indagarlo, mi fermavo indeciso a ogni incrocio senza sapere se volerlo portare a destra o a sinistra, allora lui prendeva l’iniziativa e io mi accodavo: lì da due giorni appena, ed era più padrone di me vi vivevo da due anni. Era proprio lui, non era un incubo né un sogno; era proprio come lo ricordavo: quel suo fare gentile ma deciso, quel suo essere sempre padrone di sé, che suscitava in me tanta ammirazione e incanto per quella figurina minuta ma carismatica, anche se la sua malia sembrava ridimensionata rispetto a quest’estate nell’atmosfera cupa e semibuia dell’istituto, dove in fondo eravamo entrambi due semplici studenti.
… ti sei tagliato i capelli?
Sì, mia mamma ha insistito, ma secondo me stavo meglio prima!
No, dai, stai bene anche adesso! sei stupendo come sempre, avrei voluto dirgli. – Ma… dimmi, non dovevi andare in Inghilterra? Come mai sei a scuola qua? – Così mi raccontò dei suoi zii e della malattia di suo cugino che non potevano più ospitarlo, tutto questo, però, ancora non spiegava perché mai, fra tutti gli istituti, avesse scelto proprio il mio; il suo tergiversare m’irritava. Intanto lo condussi al piano superiore in cerca d’un’aula vuota dove poter parlare; non so se m’infastidisse di più la sua faccia da santarellino o la sua impassibilità come se quell’estate non fosse accaduto niente, come se la sua presenza nella mia stessa scuola non avrebbe avuto per me altre conseguenze. Camminando riavvertii il suo fascino: quel biondino al mio fianco, spacciato per un mio lontano cugino, non potevo ignorarlo volente o nolente: suscitava in me forti e contrastanti emozioni, ricordavo ancora le cose combinate quell’estate, quell’intesa impossibile che mai in nessun altro avrei incontrato. Per togliermi dall’incantesimo, cercavo mutamenti del suo aspetto esteriore per rendermelo meno attraente, ma né l’altezza né il peso sembravano variati rispetto a un mese fa; anche di volto era rimasto quello di sempre: quella bellezza armoniosa dai lineamenti delicati e gentili di un visino imberbe e pulito da pubere fanciullino, uno sguardo simpatico e accattivante, due occhi castani e accesi, solo il caschetto non era quello d’allora: ora più corto, aveva perso quell’iride di sfumature che andavano dal biondo più acceso a quello più cinerino, in ombra, ma il suo fascino non era mutato.
Stavo nuovamente cadendo sotto l’influsso della sua arcana malia, finché vidi quello che cercavo: una porta socchiusa.
Noi due dentro in quell’aula in penombra con l’uscio chiuso, faceva molto privé; ma con la porta serrai anche la mia bocca sprofondando in un silenzio imbarazzante che si palpava nell’aria, anche Luca si fece piccolo in quel clima d’imbarazzo, con la testa incastonata fra le spalle e le mani in tasca.
Così questa è la vostra aula dei computer – disse rompendo l’indugio.
Già, ne abbiamo più di venti: quelli là in fondo sono i più nuovi, li hanno installati l’anno scorso.
E si incamminò sul fondo dell’aula, sfumandosi nel buio della stanza. La memoria non poteva fare a meno d’affollarsi di quell’immagini di lui e delle sue infinite qualità: nella sua siluetta in penombra, me lo vedevo ancora in costume quel suo fisichino sottile, d’armonica snellezza, che ancora non aveva conosciuto lo sviluppo muscolare. Luca si sedette con un salto sul bancone vicino, proprio in mezzo a due schermi; il balzo aveva sollevato la maglietta sopra la cinta, scoprendo così la patta, e il crocicchio di pieghe rosse che evidenziava la sua già risaputa vivacità peniena. Il mio occhio vi cadde sopra, poi, subito distolto, incrociò lo sguardo di Luca in un rapido scambio d’occhiate; si accorse di tutto, accennò un sorrisetto malizioso e il mio cruccio crebbe ancora, con lui che continuava a giocare al gatto col topo con la verità: stavo impazzendo.
Luca, – mi feci serio – veramente, perché sei venuto qui?
Ma si può sapere cos’hai? Sembra quasi che io ti dia fastidio? – disse con fare estremamente innocente. – Insomma, sei stato tu a parlarmene quest’estate, e io sono venuto a vederla. Come ti ho già detto, mi è piaciuta e poi ho pensato che avresti potuto darmi un aiuto coi compiti, tutto qua!
Davvero?
Sì, davvero! Perché che altro doveva esserci?
Dopo quelle parole invece di risollevarmi, rimasi deluso: in fondo ci speravo in qualcosa di più; così un po’ imbarazzato, adesso per la figura barbina appena fatta coi miei sospetti, gli dissi – Dai andiamo! –, girandogli le spalle, ma Luca balzò giù dal bancone e mi abbracciò da dietro, poggiandosi alla mia schiena. Avevo quasi dimenticato quanto fosse bello essere abbracciati; quella parte di me prima delusa si sentì subito rincuorata e avvertì il bisogno di ricambiare il gesto, così mi girai. Mammamia quant’era bello stringere un altro essere umano sentendosi libero di manifestare le proprie emozioni senza paura di essere giudicato, dentro di me continuavo a ringraziarlo per aver scelto la mia scuola; non l’avrei più lasciato, se delle grida di ragazzi, che correvano in corridoio, non avessero rotto quell’atmosfera conciliatoria; ci lasciammo a malincuore coi nostri sguardi che, incontrandosi, si giuravano che quella non sarebbe stata l’ultima volta.

All’uscita me lo trovai tutto sorridente ad attendermi, non capivo cosa volesse ancora, ma insistette per portarmi a casa in macchina, dato che, in fondo, ero di strada. Conobbi la madre, l’autista: una donna bella e distinta, che mi riferì di conoscermi già dai racconti di Luca – certo che ne aveva fatto di affidamento sul fatto di ritrovarmi in quella scuola! Arrivò perfino a propormi di farmi accompagnare d’ora in poi a scuola da loro; la proposta era allettante: usare un mezzo proprio al pubblico aveva l’indubbio vantaggio di alzarsi più tardi la mattina e di rincasare prima, ma per quel mese avevo già l’abbonamento, e poi avrei dovuto parlarne coi miei, che non gradivano che me ne approfittassi troppo della generosità degli altri, dicevano. Quando scesi da quell’auto, sentendomi più tranquillo, la situazione mi pareva più a portata di mano, speravo solo di essere abbastanza abile per saperla gestire anche in futuro, mantenendone il segreto.
Nei giorni seguenti presentai Luca ai miei compagni, come mio cugino; era sveglio, e comprese ed accettò subito quel ruolo per giustificare la sua presenza, se voleva continuare a gironzolarmi intorno; i miei amici lo trovarono simpatico e accettarono la sua presenza, visto che faceva di tutto pur di stare con quelli più grandi di lui, essendo questo motivo di distinzione di fronte alla sua classe. Dovevo però stare attento a che non diventasse troppo appiccicoso, finora, per quella prima settimana, tutto si era manifestato come una semplice amicizia, ma sapevo che ben presto sarebbe successo dell’altro.

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